"Io, la mia Inter e Berlusconi...". Moratti racconta i suoi ottant'anni

L'imprenditore milanese: "Nessun rimpianto, sono stato fortunatissimo"

"Io, la mia Inter e Berlusconi...". Moratti racconta i suoi ottant'anni

«Non ho rimpianti, mi considero un uomo fortunatissimo, e vivo questa stagione della vita con la forte motivazione di condividerla con i miei figli». Ha il sapore dolcissimo di uno sbrigativo bilancio di una esistenza lunga e pirotecnica, poggiata su tre grandi pilastri della sua esistenza, che sono poi Milano, l'Inter e la famiglia ed è invece la semplice dedica firmata da Massimo Moratti, oggi 80 splendidi anni, l'uomo che ha attraversato due secoli, sedotto e conquistato un fiume di tifosi neroazzurri diventando il presidente dello storico triplete e ha intrecciato la propria vita con la sua città diventandone una sorta di ambasciatore senza cappello a feluca piumato. A Milano si prese cura di organizzare, con la sua task force, il mondiale di calcio del 1990 («esperienza bellissima»), a Milano gli offrirono la candidatura a sindaco, una prima volta fu il cardinale Martini («sarebbe stata una bella cosa») a proporgliela, una seconda volta toccò a Silvio Berlusconi in forza di un rapporto speciale e di una sintonia personale ricambiata da simpatia naturale. Non era di facciata, tra i due esponenti della Milano da bere, nel calcio e nell'imprenditoria: c'era infatti un legame più autentico e più datato. «E qui c'è una chiave di lettura che non tutti conoscono: la mamma di Silvio, la signora Rosa, in gioventù, aveva lavorato come segretaria di mio papà Angelo e aveva con tutti noi della famiglia Moratti un grande rispetto e una venerazione» la ricostruzione. Poi venne il giorno in cui Massimo Moratti decise di riannodare il filo della storia personale a quella di suo papà Angelo accettando la sfida di riprendere l'Inter.

La scintilla scattò quasi per caso, grazie a un fortuito incontro con l'avvocato Peppino Prisco, interista sfegatato, già vice-presidente della grande Inter di Angelo Moratti ed Helenio Herrera, appena uscito da un pranzo al Clubino in via Pietro Verri. «Ma allora ti decidi a prendere l'Inter?» gli chiese. La risposta fu immediata: «Sì». «Allora scrivo a Pellegrini» promise Prisco. «Non oggi che è il 13 (gennaio 1995, ndr) fallo domani» raccomandò Massimo. Un mese dopo, il 18 febbraio 1995, un altro Moratti issò il bandierone neroazzurro in via Serbelloni al civico 4, la storica dimora di famiglia e cominciò la grande avventura battezzata dal derby vinto sul Milan 3 a 1 il sabato di Pasqua. Se Mario Corso, tutto genio e qualche sregolatezza, lo specialista della «foglia morta» (copyright Gianni Brera), la punizione che scavalcava ballerina la barriera e cadeva d'improvviso in porta proprio come una foglia d'autunno, fu l'artista di papà Angelo, Ronaldo il fenomeno prese il suo posto d'onore nel cuore di Massimo e dei suoi figli. Lo spunto per accelerare la trattativa col Barcellona, pensate un po', lo diede Dante, lo storico autista, «un vero brontolone» la definizione affettuosa. Al ritorno da un viaggio a Firenze scandito da un insipido 0 a 0 commentò amaro: «Dottore, qui non si vince mai». «Vabbè, adesso prendo Ronaldo così la finirai di rompere le .» fu la replica. Fu di parola, naturalmente. E Ronnie infatti arrivò, si affacciò dal balcone di via Durini, sede degli uffici del club all'epoca, salutò la folla e promise gol e dribbling. «È quella l'Inter rimasta tatuata nel mio cuore, peccato non sia riuscita a vincere come è capitato dopo, col triplete, perché avevamo messo insieme un gruppo di formidabili campioni, un po' come accadde a quelli della grande Inter che ho paragonato ai Bealtles, quasi senza saperlo divennero un incastro perfetto di talenti e di uomini e cominciarono a suonare calcio» è il suo ricordo struggente. C'è una spiegazione quasi elementare nello scoprire il rapporto quasi carnale con il pubblico interista: Massimo Moratti esprimeva la figura del presidente-tifoso a tal punto, da scrivere qualche anno dopo, in una lettera vergata per un suo compleanno, una confessione strepitosa. Eccola: «Succedeva a volte che, guardando una partita dell'Inter, arrivavo a prendermela con il presidente quando le cose non andavano bene, come un qualsiasi tifoso appassionato pur sapendo che il presidente ero io!». Eppure, altra confessione postuma, ricorda sempre che «non ho mai perso il sonno prima della partita più importante ma spesso l'Inter è stata l'ultimo pensiero prima di addormentarmi». Di giorno al lavoro negli uffici della Saras, di sera il summit dedicato all'Inter.

Hodgson, Mancini e Mourinho sono diventati i simboli di quel lungo periodo di passione sfrenata e di successi irripetibili, chiuso con 16 trofei, uno più inseguito dell'altro fino alla tenera notte di Madrid, quando con la Champions league alzata al cielo di Spagna, Moratti riuscì a ripercorrere esattamente la stessa straordinaria traiettoria di suo papà Angelo, l'uomo che gli aveva instillato la passione per il calcio e per l'Inter. «Un giorno, parlando appunto della sua magica esperienza, mi rivelò: ricordati, se un giorno diventerai presidente dell'Inter, sarà il mestiere più complicato di tutti, perché dovrai fare un bilancio a settimana in campionato e uno ogni tre giorni se giocherai la coppa dei Campioni» la rivelazione. Probabilmente il distacco da Mourinho e dall'Inter del triplete fu l'avviso ai naviganti, l'avventura stava per concludersi, il calcio stava diventando un business troppo oneroso perché potesse sostenerlo una sola famiglia. Ma il ricordo del congedo dal tecnico portoghese è ancora vivo in Moratti: «Due giorni dopo Madrid, Mou venne a cena a casa mia e gli feci trovare un centro-tavola discreto: la Champions league appena vinta nella quale entrava, il mio nipotino nato da poco». La cessione a Thoir fu l'ultimo atto d'amore verso Milano e l'Inter. «Non è che ci fosse la cosa davanti agli uffici della Saras» la spiegazione per pochi intimi.

Oggi, sotto gli uffici della Saras, non mancano mai i tifosi e i cronisti che continuano a interrogarlo sull'Inter dei nostri giorni, quella poi passata al suo amico Zhang e oggi al fondo americano e che continua a suscitargli una grande emozione. È il segno che gli anni hanno scavato qualche ruga ma non hanno esaurito la nota passione.

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