L'autostrada è un solco grigio in un oceano di rovine. Il perché te lo spiega il cartello. Un lugubre cartello nero con la chiamata alla fede in Allah iscritta in un candido circolo bianco e, una riga più sotto, il richiamo al Profeta. Un riproduzione in versione autostradale della bandiera del Califfato. Un modo come un altro per dire «qui ci siamo noi», «qui incomincia il nostro mondo». O meglio «qui c'eravamo noi» e questo «era il nostro mondo». Perché, in effetti, da qualche settimana dello Stato Islamico sono rimaste solamente le insegne, le distruzioni e l'atroce memoria. Siamo sull'autostrada per Raqqa. La capitale del Califfato, l'epicentro di ogni moderno orrore è 150 chilometri più ad est. Aleppo la città simbolo assediato per oltre tre anni dai gruppi jihadisti è 22 chilometri alle nostre spalle. Ventidue chilometri, in un mondo normale, sono un soffio senza memoria, il tempo di una sigaretta e di qualche canzone mentre l'auto macina asfalto. Qui sono il limbo tra la vita e la morte, la cesura tra libertà e dannazione. Per capirlo basta sbirciare oltre il finestrino.
Un mondo di rovine
Fuori non è rimasto in piedi nulla. Case ed edifici sono sottilette di cemento e detriti. Quelle poche ancora in posizione verticale sono scheletri senza forma, pinnacoli di calcestruzzo e mattoni spolpati da proiettili schegge ed esplosioni. Qui l'avanzata di un esercito siriano catapultato in avanti dalle bombe dello Zar Putin ha tagliato i tentacoli di un califfato pronti a strangolare la periferia di Aleppo. Ma non ne ha cancellato la memoria. Per capirlo basta puntare verso le quattro ciminiere bianche e rosse della centrale elettrica di Kuweyres, varcare l'arco d'ingresso, parlare con dirigenti ed operai. «Questa non era più una centrale elettrica questo stabilimento era diventato un campo di concentramento, un lager. Qui - racconta Hussein Sultan responsabile tecnico della centrale - eravamo gli schiavi dello Stato Islamico, le sue vittime ed i suoi burattini Ogni giorno qualcuno di loro poteva decidere se tenerci in vita o ucciderci. Ogni giorno poteva essere l'ultimo». I simboli del terrore sono tutt'attorno. Nel vialone il vento trascina centinaia di volantini con le immagini dell'incubo appena trascorso. Hussein Sultan te ne allunga uno. Sul davanti, sotto il simbolo dell'Isis sono stilizzate una chioma, un sopracciglio femminile ed un paio di forbici cancellate da una croce. Poi più sotto, giustificata da una paginata di citazioni di Maometto e del Corano il decreto. «Sia rifiutata dal Signore colei che si rifà ciglia e capelli».
La stanza del peccato
Ora Hussein ti accompagna in un ufficio diventato magazzino. A terra, buttati uno sull'altro, un centinaio di vestiti femminili, di blu jeans e altri indumenti. «La chiamavano la stanza del peccato... qui ti facevano spogliare se i vestiti, secondo loro, non erano adatti. Qui le donne che venivano a lavorare dovevano abbandonare gli indumenti indecenti e ricoprirsi da testa a piedi, altrimenti erano frustate». Ma nel piccolo mondo dell'orrore di Kuweyres succedeva anche di peggio. Fino alla fine del 2014 quando la centrale continua a funzionare lo stabilimento rappresenta una sorta di bene comune per la città e per i terroristi del Califfato. «In fondo anche loro avevano bisogno dell'elettricità - ricorda l'ex governatore di Aleppo Hamma Al Aqqad - e così quando qualcosa si rompeva si patteggiava. Noi mandavamo la squadra per ripararla, loro ci concedevano il permesso di farla arrivare e rientrare. Poi ad un certo punto una squadra non è riuscita a far ripartire la centrale e loro hanno deciso di decapitare i due tecnici. Da quel momento i patti si sono chiusi, l'elettricità è stata tagliata ed Aleppo ha dovuto sopravvivere solo con i generatori». Ma nel piccolo lager di Kuweyres l'orrore non è terminato. Lo sgozzamento dei due disgraziati tecnici inviati da Aleppo è, in fondo, solo un episodio fra tanti. «Non erano solo dei terroristi erano delle bestie. A noi impartivano solo ordini. Oppure ci facevano trovare quei volantini in cui era scritto quello che si poteva o non si poteva fare».
Le esecuzioni in piazza
Ma gli ordini potevano cambiare, oppure qualcuno poteva decidere che tu eri un nemico. Ed allora, credimi, non avevi più speranza. Ti prendevano, ti portavano qui sul piazzale e incominciavano a processarti. Ho assistito a quelle messe in scena troppe volte. Ho visto 40 fra i miei colleghi e i miei operai fare quella fine. Non andavano per il sottile. La messa in scena durava il tempo di pronunciare l'accusa. Poi arrivava la condanna e il disgraziato di turno si prendeva un colpo di kalashnikov alla nuca. E tutti noi dovevamo guardare». Così Yad, 32 anni operaio della centrale, ha perso Alì Raiab il suo migliore amico. Mentre te lo racconta sgrana gli occhi, trema ancora. «Alì non aveva mai fatto del male a nessuno, era un autista, al più guidava le auto dei responsabili della centrale. É bastato quello per considerarlo un collaboratore, un'infedele. Quando l'hanno ucciso non ero qui. Sono arrivato un paio di ore più tardi e me lo sono visto penzolare dall'arco d'ingresso appeso a testa in giù. Aveva gli occhi aperti, sbarrati.
L'hanno tenuto lì per tre giorni Poi non ne hanno neppure consegnato il corpo alla famiglia perché per loro gli infedeli non hanno diritto alla sepoltura. Così di Alì mi è rimasto solo il ricordo di quel paio d'occhi sbarrati. Sono l'incubo che non potrò mai dimenticare».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.