Mentre a Washington Donald Trump cancella l'accordo sul nucleare a Teheran, i deputati conservatori approfittano della sua mossa per riconquistare Parlamento e opinione pubblica dando alle fiamme, tra le grida di morte all'America, una copia dello stesso accordo e una bandiera a stelle e strisce. La mossa della Casa Bianca in poche ore, insomma, trascina indietro di trent'anni la Repubblica Islamica ridando fiato alle correnti più radicali, risvegliando l'innato nazionalismo e azzoppando un presidente Hassan Rohani portabandiera del dialogo con l'Occidente.
Ma il ritorno sulla scena di conservatori e pasdaran mette a rischio non solo gli accordi economici, bensì tutta la politica di distensione legata all'intesa sul nucleare. E con essa tutto quello scacchiere mediorientale dove l'ala radicale e i Guardiani della Rivoluzione muovono le loro milizie armate mentre Israele si prepara allo scontro diretto. In questo scenario l'ayatollah Alì Khamenei, Guida Suprema del Paese, è pronto a «commissariare» il presidente spingendolo a riprendere la via del nucleare. Così mentre Rohani propone di mantenere in piedi l'accordo con i Paesi europei, Khamenei annuncia sul proprio sito l'intenzione di garantire al Paese «20mila megawatts di energia nucleare» entro pochi anni. Dietro lo schermo della produzione di energia elettrica ripartirebbe ovviamente la progettazione di testate nucleari. Ma i conservatori potrebbero aggiungerci anche l'abbandono del «Trattato di non proliferazione nucleare» vanificando così qualsiasi possibilità di controllo internazionale. Nell'ambito di questa escalation ripartirebbe lo sviluppo di missili destinati alle testate nucleari. Questi passi accompagnati dai movimenti di unità iraniane sul fronte siriano potrebbero spingere Israele a uno scontro diretto e a un bombardamento dei siti nucleari. Israele è, però, il primo a interrogarsi sulla possibilità di colpire siti segreti nascosti e di neutralizzare una minaccia iraniana in grado di operare sullo stesso confine dello Stato ebraico attraverso le unità dispiegate nel Golan siriano, le milizie di Hezbollah in Libano e le cellule della Jihad Islamica e del braccio armato di Hamas a Gaza.
Un coinvolgimento diretto di Stati Uniti e Arabia Saudita al fianco d'Israele non renderebbe le cose più agevoli. In Irak e Siria le truppe americane si ritroverebbero nel mirino delle milizie sciite. L'Arabia saudita, invece, rischierebbe l'insurrezione di quelle minoranze sciite che rappresentano poco più del dieci per cento della popolazione, ma si concentrano nella provincia più importante per la produzione di petrolio. E altrettanto complicato si delinea quello scenario yemenita da dove già partono i missili delle milizie houti, alleate di Teheran, che colpiscono il centro di Riad.
La leva di nuove sanzioni studiate per inasprire la crisi economica iraniana potrebbe innescare nuove proteste di piazza e aprire la strada a un cambio di regime. Ma il progetto, suggerito dai falchi dell'Amministrazione guidati dal Consigliere per la Sicurezza Nazionale John Bolton e dal segretario di Stato Mike Pompeo, deve far i conti con il nazionalismo degli iraniani e la capacità repressiva di un regime in grado di spegnere qualsiasi rivolta interna.
Senza contare che le sanzioni, come dimostrano Cuba o Irak, non sono mai bastate a far cadere un dittatore. Mentre i progetti di esportazione della democrazia tentati in Afghanistan, Irak o Libia hanno condotto al caos permanente.
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