Paolo Isotta, un po' piemontese e molto napoletano, devoto di San Gennaro, del quale afferma di godere ampia protezione, è il critico musicale (precisiamo, storico della musica) più bravo e più importante d'Italia. Lo sanno tutti, ma non tutti sono disposti ad ammetterlo, per motivi imperscrutabili. Da anni egli presta preziosa opera al Corriere della Sera senza farsi intimidire da alcuno, senza piegarsi ad alcuno, e se ciò giova alla sua reputazione, non giova alla sua quiete personale né ai rapporti nell'ambito della redazione, dove c'è sempre un collega o dieci a cui le persone intelligenti, libere e competenti danno sui nervi.
Perché? I mediocri, allo scopo di essere all'altezza dei migliori, cercano di abbassarli per non sentirsi a disagio. Isotta, pur disertando gli studi televisivi di qualsiasi antenna, gode di notorietà, specialmente fra i melomani e chiunque abbia interessi culturali. Ha una prosa aulica, classicheggiante e rivelatrice di un'erudizione non comune in questi tempi di decadenza scolastica e universitaria. I suoi scritti si leggono avidamente: contengono concetti illuminanti, perfino sottilmente ironici. È un fuoriclasse, sta su un altro pianeta. Mai avrei immaginato che un bel dì si sarebbe impegnato nella compilazione di un librone nel quale non tratta solo di musica, ma di varia umanità.
C'è chi, avendo appreso che Paolo era sul punto di dare alle stampe il suddetto tomo, ha pensato che egli si fosse deciso a stendere la propria biografia. Errore. Isotta ha messo nero su bianco i ricordi di una vita, gli incontri con personaggi di spicco, le proprie riflessioni su vari argomenti, i torti subiti, esperienze d'ogni tipo. Ne è venuta fuori una summa imperdibile dello scibile isottiano, pagine ricche di episodi gustosi legati al mondo della musica, dei giornali e in genere della cultura, che offrono al lettore la radiografia di quanto è avvenuto e avviene in Italia nei luoghi che contano. Il titolo del libro fa già capire che siamo di fronte a uno scrittore che ha molto da dire, perché molto ha vissuto e nulla ha dimenticato: La virtù dell'elefante (che è poi una formidabile memoria). Uno scrittore attento e controllato in ogni parola (non ne butta giù una di troppo) che, nella circostanza, consapevole di rivolgersi a un pubblico più vasto di quello a lui affezionato (gli amanti della musica), ha rinunciato ai consueti virtuosismi, adottando un linguaggio di una limpidezza cristallina. Piacevole. Sciolto. Prezioso.
La moltitudine delle pagine non è un ostacolo: chi comincia a compulsare il testo è probabile arrivi in fretta fino in fondo e si rammarichi che non continui. Da un autore non è lecito pretendere di più. Isotta con questo suo sforzo letterario si svela, si denuda senza pudore, senza infingimenti: non nasconde neanche le proprie debolezze, ammesso siano tali, e si esprime con candore e franchezza disarmanti, come si conviene alle personalità geniali che, dando l'impressione di narrare solo se stessi, dipingono invece la realtà con la quale ciascuno di noi, volente o nolente, è obbligato a misurarsi quotidianamente.
In La virtù dell'elefante non si svelano segreti, ma si portano a galla tante verità sprofondate nell'oblio e annegate in un mare di ipocrisia, assai praticata nel nostro Paese con l'intento di non disturbare i manovratori del potere, vero o presunto che sia. Basti pensare che il libro, prima di essere accolto da Marsilio (regno di gente dal brutto carattere, ma né stupida né vile), fu rifiutato con penosi pretesti da ben sei editori in linea con il docile conformismo italiota.
Se la verità è scandalosa, l'elefante di Isotta è scandaloso, ma utile per comprendere che il culturame campa di paure e si nutre di bugie nel timore d'essere epurato. Ne è prova la storia professionale di Paolo (ripeto, insigne storico della musica), talmente tortuosa nel suo sviluppo da apparire incredibile a chi non frequenti l'ambiente dei sedicenti intellettuali. Vale la pena di rammentarne alcuni passaggi onde comprendere in che razza di contesto si è svolta. Aggiungo di essere stato testimone di numerose fasi del cammino compiuto negli anni dal talentuoso musicologo.
Incontrai per la prima volta Isotta nel 1974, quando questi era appena stato ingaggiato, giovanissimo (24 anni), al Giornale di Indro Montanelli, non ancora in edicola (dove però sarebbe apparso un paio di mesi appresso). Era seduto a un tavolo del ristorante «Gatto nero», vicino a piazza Cavour, sede della Notte di Nino Nutrizio e, appunto, del Giornale in gestazione. Con lui alcuni colleghi, tra cui Salvatore Scarpino, detto l'Avvocato per la sua abilità oratoria esibita scherzosamente allorché si discettasse di questioni di diritto.
Paolo era elegantissimo, indossava un abito impeccabile di taglio partenopeo, il più apprezzato dagli intenditori. Fraternizzammo subito. Mi stupirono il suo eloquio forbito nonché le idee che egli esternava, totalmente distoniche rispetto all'andazzo politico dell'epoca, ma sintoniche con quelle cavalcate da Indro, famoso bastiancontrario. Io non soffro di complessi di inferiorità, ma ebbi subito la sensazione di essere inferiore a Isotta. Non sbagliavo. Infatti, quando iniziai a leggerlo sul Giornale neonato, ebbi la conferma delle sue doti eccezionali. I suoi articoli erano semplicemente mirabili, in particolare nel campo musicale. Me ne accorsi perché fin da ragazzo mi dilettavo suonando il pianoforte, ed ero pure persuaso di non essere sprovveduto in materia; ma, non appena divorato un paio di pezzi di Paolo, ebbi la sconfortante certezza di essere un semianalfabeta di ritorno, e di andata, delle sette note e della tastiera. Amen. Me ne feci una ragione, anche se seguitai a strimpellare, ma solo dopo il secondo whisky.
Alcuni anni più tardi, Franco Di Bella, direttore del Corriere della Sera , lesto e birbante, assunse in via Solferino il critico del Giornale , ovvero Isotta, con tanto di contratto regolare e firmato. Figuriamoci cosa accadde. Il Comitato di redazione (potente sindacato interno) si oppose all'ingresso del giovin talento. Motivo ufficiale: il Corriere aveva già un critico musicale, Duilio Courir (come se un giornalone del genere non potesse averne due). Motivo autentico: Paolo non era comunista e nemmeno di sinistra. La querelle durò anni e anni. Risultato. Isotta non era autorizzato a vergare neppure una breve. Veniva in redazione - saltuariamente - e si girava i pollici, poi se ne andava, inutilizzato.
Una situazione manicomiale, che Di Bella non riuscì a sbloccare in quanto in balia dei tribuni, in quel periodo padroni assoluti del vapore. Scoppiò lo scandalo della P2 e avvenne un cambio alla direzione: fuori Di Bella, dentro Alberto Cavallari. Ottimo giornalista, pessimo comandante, soprattutto ostaggio del sindacato rosso. Isotta rimase in panchina un altro triennio. Un fenomeno imbavagliato per ragioni politiche e sindacali. Lui e io ci consolavamo a vicenda. La nostra amicizia si consolidò.
Qualche pranzo, qualche cena, parecchi sacramenti. Ne abbiamo viste di ogni colore. Finalmente Piero Ostellino fu chiamato al timone del Transatlantico cartaceo e la rotta mutò. Isotta attaccò a fare il suo mestiere con perizia e per fortuna non ha più smesso di esercitarlo, malgrado difficoltà di comunicazione e di convivenza con una redazione non del tutto mondata da comunisti e similari: vi resistono ancora incrostazioni nostalgiche dure da rimuovere. Alle quali bisogna sommare una discreta quantità di cretini che confondono la musica con la politica, non in grado di distinguere le capacità professionali da quelle di galleggiare.
In pratica sono storditi e non selezionano i giganti della penna dai sugheri e dai tangheri. Il rischio di Isotta è che il suo lavoro non venga mai giudicato in base al valore, ma secondo gli umori di chi ignora la differenza tra un do diesis e un re bemolle.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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