La visita di Netanyahu a Mosca sarà stata anche concordata con gli Stati Uniti, come ha voluto sottolineare il premier israeliano, ma certo rende ancora più complicato il puzzle siriano, che lo è già abbastanza di suo: segna infatti non solo un riavvicinamento tra Mosca e Gerusalemme, da molti anni schierati su fronti opposti, ma pone anche le basi per una intesa tra i due governi sulla base di un singolare do ut des : da una parte Israele accetta la presenza di sempre più consistenti forze russe alle sue porte (cioè il ritorno in grande stile del Cremlino in Medio Oriente), dall'altra Putin si impegna con lo Stato ebraico a impedire che le armi che sta fornendo all'Iran e alla Siria di Assad siano mai impiegate contro di lui e lo autorizza - se necessario - a distruggerle. E, per buona misura, i due Paesi hanno creato un «meccanismo» (di cui non si conoscono i particolari) per evitare scontri accidentali tra le rispettive forze, impegnate sullo stesso terreno, ma con avversari diversi: Mosca contro l'Isis in difesa dell'alleato Assad, (e in particolare della zona costiera della Siria che è nello stesso tempo la roccaforte degli alawiti e la sede della base di Tartous, unico punto d'appoggio rimasto alla flotta russa nel Mediterraneo), Israele contro Hezbollah e l'Iran, che di Assad sono alleati contro la stessa Isis. Ma il suo obbiettivo principale rimane la distruzione della cosiddetta «entità sionista»: ancora una settimana fa, l'ayatollah Khamenei ha sostenuto che, ad Allah piacendo, tra 25 anni questa non esisterà più.
L'aspetto più intrigante del viaggio di Netanyahu è che sia avvenuto con la benedizione dell'amministrazione Obama, che non solo ha pessimi rapporti con lui in seguito al suo accordo con l'Iran sul nucleare, ma i cui esponenti hanno, almeno fino a ieri, espresso apertamente viva preoccupazione per lo spiegamento militare russo in Siria, che sta assumendo dimensioni ogni giorno più importanti. Ormai, nella base costruita vicino a Latakia ci sarebbero circa mille militari, 28 aerei da combattimento e una decina di elicotteri d'assalto Hind, e altri 500 «consiglieri» affiancherebbero le truppe governative a Damasco. Inoltre, giganteschi aerei-cargo russi, cui l'America ha cercato invano di far negare dai sui alleati il diritto di sorvolo, continuano a portare armi e materiali. Ora, sembra che questa preoccupazione si sia attenuata, nel senso che il segretario di Stato Kerry ha detto che la presenza militare russa in Siria era accettabile se diretta esclusivamente contro l'Isis e non a sostegno di un regime che Washington continua, almeno a parole, a volere abbattere al più presto: se vogliamo, l'ennesima contraddizione, ma anche un segnale che gli Stati Uniti e l'Europa sono finalmente propensi a prendere in considerazione la proposta di Putin di una «sacra alleanza» contro il Califfato, lanciata due settimane fa e dapprima accolta con molta freddezza, perché considerata un «diversivo» dello Zar per uscire dall'angolo. Se questa collaborazione, che finirebbe con il relegare in secondo piano lo scontro con l'Ucraina come vuole Mosca, avrà sviluppi concreti, lo vedremo dopo l'atteso incontro tra Obama e Putin ai margini dell'Assemblea generale dell'Onu.
Dal canto suo Israele, che in questo momento è paradossalmmente l'unica oasi di pace in Medio Oriente, rimarrà fuori dalla guerra all'Isis, perché non intende mettere dito in una contesa che, in fondo, non la riguarda.
Ma si augura che le esigenze della lotta allo jihadismo servano a far capire agli europei che il conflitto israeliano-palestinese non è più la causa prima della crisi della regione e che l'atteggiamento ostile di molti governi (e del Parlamento europeo) nei suoi confronti è, in questo momento, un controsenso. L'avere stabilito un buon rapporto con Putin, il quale ci ha tenuto a ricordare che quasi un quarto della popolazione israeliana è di origine russa, rappresenta per Netanyahu un importante successo.
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