Si dichiara pentito, si spaccia per italiano doc e vuole tornare ovviamente da noi, anche se sul collo ha una condanna di 8 anni per terrorismo internazionale. Monsef El Mkhayar è l'ultimo seguace dello Stato islamico partito dall'Italia e spuntato dall'assedio di Baghuz, l'enclave del Califfato in Siria che resisterà ancora per poco. Nelle ultime ore è scattato l'assalto finale agli irriducibili dell'Isis, ancora asserragliati in un chilometro quadrato. I curdi hanno catturato El Mkhayar due mesi fa, dopo che il marocchino vissuto per sei anni fra Milano e il Piemonte era stato ferito a una gamba. «Vorrei tornare in Italia dalla famiglia e dagli amici per farmi accettare e ricominciare a vivere una nuova vita», ha detto il terrorista di 22 anni all'agenzia di stampa Reuter in uno dei centri di detenzione dei curdi nella Siria nord orientale.
Il furbetto sostiene di essere cittadino italiano, ma non è vero. Marocchino nato a Casablanca è arrivato da noi clandestinamente nel 2009 con i barconi. El Mkhayar si spaccia per connazionale, per evitare di venire ripreso dal Marocco, dove non lo tratterebbero con i guanti.
Il conclamato pentimento è un paravento per cercare una via di uscita: «Voglio solo andarmene da questo film. Sono stanco». E preoccupato per la moglie, curda di Kobane, che gli ha già dato una figlia e sta per partorire un secondo bambino in un campo di detenzione delle donne dell'Isis. El Mkhayar ha rivelato che lo Stato islamico pianificava da tempo una nuova fase della lotta in nome di Allah, che prevede la creazione di cellule in sonno in Siria e Iraq «per vendicarsi» della cocente sconfitta. Secondo il terrorista partito dall'Italia a 18 anni, negli ultimi mesi le bandiere nere erano nel caos. Comandanti che fuggivano con la cassa e si ammazzavano fra loro ordinando alla truppa di combattere fino alla morte. Per accreditare il pentimento e giustificare l'errore El Mkhayar ha dichiarato nell'intervista: «Onestamente sono arrivato qui troppo in fretta e ho trovato tutta un'altra storia».
Difficile credergli ricostruendo la sua radicalizzazione e i quattro anni passati nello Stato islamico. Il marocchino è arrivato clandestinamente in Italia nel 2009 e come ammette con la Reuters si interessava più alla musica rap che al Corano. E allo spaccio di droga che nel 2013 lo ha portato in cella a San Vittore per un anno. Dietro le sbarre si è radicalizzato, come testimoniano gli operatori della comunità Kayros che lo ospitavano a Vimodrone in provincia di Milano. Si rifiutava di stringere la mano alle donne e rimaneva incollato al computer con i video della guerra santa. Nel gennaio 2015 è partito per la Siria con l'amico Tarik Aboulala, che morirà in combattimento. Dal fronte non solo cercava proseliti in Italia per farli venire in Siria, ma i due minacciavano di tagliare la testa ai cristiani. Monsef in un messaggio vocale spiegava: «Vedrai qua cosa faremo ai miscredenti». Su Facebook postava le sue foto in armi e con la tuta nera dei miliziani del Califfo. Il 13 aprile 2017 la Corte di Assise di Milano lo ha condannato a otto anni di carcere, ma per lo Stato islamico la situazione peggiorava. Così è spuntata la storia del pentimento avallata dai familiari, che vogliono vederlo tornare a casa.
Facile dopo aver fatto parte per anni delle bande di tagliagole dell'Isis in prima linea. La Digos aveva intercettato il marocchino partito da Milano, che ai tempi del Califfato invincibile giurava: «Se tornerò in Italia sarà per farmi esplodere».
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