L'accusa non fa sconti a Stasi: «Merita 30 anni di prigione»

Dai pedali scambiati alle impronte sul portasapone, le «nuove prove» si sono tutte rivelate inconsistenti. Ma, dopo due assoluzioni, la Procura non molla

L'accusa non fa sconti a Stasi: «Merita 30 anni di prigione»

Milano Era giusto cercarle fino in fondo, le prove che sette anni fa una indagine nata male aveva dimenticato di cercare. Ora si sono cercate, e la prova in grado di incastrare Alberto Stasi per l'uccisione di Chiara Poggi non è saltata fuori. Ma il procuratore generale Laura Barbaini non molla. Strada facendo, da quando il fascicolo sul delitto di Garlasco è arrivato sulla sua scrivania, Laura Barbaini si è convinta che la mattina del 13 agosto 2007 Alberto abbia ucciso Chiara, punto d'approdo di un viluppo di rabbie nato dalla sua passione incontenibile per la pornografia di ogni genere ed età. E ieri torna a presentare il conto al biondino dagli occhi troppo azzurri. Trent'anni di carcere per omicidio volontario aggravato, questa è la pena che la pubblica accusa chiede alla Corte d'assise di infliggere a Stasi.

Stasi è lì, in aula, accanto ai suoi legali, ad ascoltare la requisitoria. Aveva pensato di essere fuori dal tunnel quando, tre anni fa, il primo processo d'appello aveva confermato la prima assoluzione. Due sentenze identiche, due processi che prendevano atto dell'ineluttabile: nulla, né la mancanza di altre ipotesi, né la strana assenza di macchie di sangue sulle sue scarpe dopo il ritrovamento di Chiara, né la fissazione morbosa per il sesso virtuale, potevano trasformare in certezza i sospetti su Stasi. Invece, quando la fine di tutto sembrava a un passo, la Cassazione ha riaperto i giochi. Ha accusato chi aveva assolto Stasi di avere guardato le tessere del puzzle una per una, senza guardare il mosaico che componevano. E ha ordinato di fare nuove indagini, nell'illusione che a sette anni dal delitto si potesse riagganciare quella verità che forse allora era a portata di mano e che oggi è persa nelle nebbie del tempo.

Le nuove indagini dalla procura generale hanno combattuto soprattutto contro il tempo trascorso. Non esistono più i tabulati telefonici, per esempio, che avrebbero potuto chiarire cosa accadde davvero durante il viaggio di Alberto a Londra insieme ad un amico, poco prima del delitto, e in cui si sono cercate a lungo le tracce di un movente. La pista dei pedali che Stasi avrebbe cambiato alla sua bicicletta è svanita strada facendo; e in più di una occasione le nuove indagini sono sembrate scagionare l'imputato più che inguaiarlo. E così ieri nella sua lunga requisitoria il pg Barbaini torna a puntare sugli indizi raccolti sette anni fa, e che - per sua stessa ammissione - vennero rovinati dall'insipienza: come il segno di quattro dita insanguinate sul pigiama indossato da Chiara, le dita dell'assassino, nitide nelle prime foto del corpo ma rese inutilizzabili quando la ragazza venne voltata. Quella foto prova che l'assassino si sporcò le mani, dice la dottoressa. E allora tornano cruciali le impronte di Stasi sul portasapone del bagno.

«Alberto si lavò le mani dopo il delitto», dice ai giudici e ai giurati la dottoressa.

Sapendo che è un argomento forte, quasi ad effetto, ma che era già tutto nelle carte che per due volte hanno portato ad assolvere l'imputato. Per legge, a condannare Stasi si potrà arrivare solo se la sua colpevolezza verrà considerata provata «oltre ogni ragionevole dubbio». Come si potrà definire irragionevole ciò che due sentenze hanno considerato logico?

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