L'anno nero di Domenico. Lo statalista da divano non ne ha azzeccata una

Arcuri chiamato per risolvere problemi. Ma ha collezionato solo flop (e un'inchiesta)

L'anno nero di Domenico. Lo statalista da divano non ne ha azzeccata una

Per due settimane ha tentato di resistere con le specialità che lo hanno tenuto a galla per dodici anni e sei governi: tempismo e invisibilità. Qualità che hanno reso Domenico Arcuri, a soli 57 anni, uno dei più longevi manager di Stato.

Lo scorso 12 febbraio il plenipotenziario di Conte era tornato in immersione anticipando tutti: annullata senza preavviso, la sua conferenza stampa settimanale «per garbo istituzionale» ancor prima che fosse ufficiale la convocazione di Mario Draghi al Quirinale per l'incarico di governo.

Da allora Arcuri non è più ricomparso in pubblico. Ma era troppo tardi per recuperare l'invisibilità dopo aver assommato su di sé un potere con pochi precedenti: budget di spesa per l'emergenza pressoché illimitato, decine di incarichi disparati, discrezionalità assoluta e perfino un discusso scudo legale anti-Corte dei conti. Un potere che lo ha fatto sentire così intoccabile da trascurare la regola dell'invisibilità. La conferenza stampa era diventato il palcoscenico personale delle sue risatine di scherno ai giornalisti dei suoi «non rispondo», dei suoi dati «creativi», e delle cosiddette «perle di Arcuri» sparse a favore di telecamera.

Vedi l'invettiva contro i liberali da divano «con il cocktail ni mano» che lo contestavano per la gestione statalista delle mascherine, o la spiegazione senza ironia che «la mascherina lavabile è quella che si può usare un numero di volte superiore a uno». Così era arrivato anche il coronamento estetico del potere: l'imitazione di Crozza. E Arcuri era diventato troppo ingombrante per restare anche con Draghi, esondando dal ruolo di «Mr. Wolf» di Conte e Speranza, l'uomo che risolve problemi.

Oltretutto, nell'arco dell'incarico durato poco meno di un anno (la nomina risale al 18 marzo 2020, con uno dei primi Dpcm) di problemi Arcuri ne aveva risolti ben pochi. I primi fallimenti con le mascherine: introvabili nei primi giorni dell'emergenza come dappertutto in Occidente poi, quando il mercato aveva iniziato a organizzarsi, lui aveva sfornato l'idea populista del prezzo massimo di Stato, i famosi 50 centesimi, e in un colpo solo aveva fatto sparire le mascherine dalle farmacie e messo nei guai la nascente azienda italiana del settore, incentivata a investire e poi tradita, importando dalla Cina tonnellate di dispositivi di protezione, nonostante avesse promesso l'autarchia della mascherina italica a partire da settembre.

Proprio a bordo dei container dalla Cina sono arrivati i guai: l'inchiesta per traffico di influenze che, al momento, non vede Arcuri indagato, ma di sicuro l'aver negato di conoscere il mediatore d'oro della commessa da 1,2 miliardi, quel Mario Benotti dalle comuni frequentazioni prodiane con cui si era scambiato 1228 contatti telefonici, qualche imbarazzo l'ha creato.

Ma il vero pasticcio è quello dei banchi a rotelle, diventati simbolo della confusione con cui il governo Conte ha affrontato la seconda ondata, quasi 500 milioni spesi per inutili arredi semoventi salvo poi chiudere le scuole. Non era andata granché meglio con la dimenticata app Immuni e peggio ancora con le dimenticabili «primule», i tendoni progettati dall'architetto Stefano Boeri da 400mila euro l'uno, passati da simbolo della rinascita vaccinale, a emblema della mancanza di un decente piano di immunizzazione.

Il licenziamento di ieri era ormai atteso.

Ma va detto che Arcuri resta ad di Invitalia, pur avendo collezionato insuccessi da Bagnoli a Termini Imerese, e tra i suoi incarichi c'è la sfida impossibile dell'Ilva. C'è da scommettere che del manager «scoperto» da Romano Prodi e lanciato da Giuseppe Conte sentiremo ancora parlare.

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