S apere con nitida esattezza che una cosa che stiamo vivendo non si ripeterà più è uno sgualcito superpotere. Lo possediamo improvvisamente in pochi momenti della nostra vita, a volte per eventi che non hanno tanta importanza ma che ci divertiamo a solennizzare in questo modo. Accade, ad esempio, quando mangiamo qualcosa di così terribile che ci appuntiamo mentalmente di fare in modo che un tale disgusto non si ripeta più e magari annunciamo solennemente il proposito a chi ci sta accanto. Oppure quando saliamo su un ottovolante e il cuore ci ingolfa a tal punto la gola che finisce che in un luna park non mettiamo più piede. Accade quando viviamo un'esperienza per sua natura irripetibile. A volte, poche, capita di essere abitati dal demone dell'ultima volta quando salutiamo qualcuno a cui vogliamo bene e che sappiamo che sta morendo e questo lo chiamiamo un doloroso privilegio. Più difficilmente chi è vicino alla morte ha la prerogativa di congedarsi dalla vita e dai suoi singoli aspetti, perché mancano la lucidità o la consapevolezza, perché una falsa speranza spariglia le carte, perché l'incoscienza ottunde.
Poi, qualche volta, il miracolo prende vita. E il mondo si ferma incantato.
Marina di Carrara è un luogo qualsiasi lungo il Tirreno, in riva al mare, dove amiamo immaginare che il finito intinga i piedi nell'infinito. Qui si ferma un'ambulanza, un mezzo solitamente trafelato, vibrante di ansia e di urgenza, stavolta invece quieto come un furgoncino della Volkswagen perennemente in gita fuori stagione, dimenticati da tutto e da tutti. A bordo c'è un uomo di ottantotto anni, che dalla Toscana sta andando a Ivrea, in Piemonte, per essere ricoverato. Dell'uomo non conosciamo il nome, e non è importante; e nemmeno la malattia, e conta ancora meno. Sappiamo solo che è abitato dalla consapevolezza che quello potrebbe essere il suo ultimo viaggio. E siccome nel Canavese il mare non c'è e non c'è in programma di portarcelo a breve, lui vuole vederlo un'ultima volta. Chiede al personale paramedico che lo sta trasportando se possono portarlo su una spiaggia. Gli annoiati infermieri si guardano stupiti, inizialmente. Immaginiamo chiedano all'anziano paziente, forse un simpatico svanito, di lasciar perdere. Ma poi un alito di poesia si infila dentro quell'ambulanza, magari da un finestrino tirato un po' giù. E nulla è più come prima. I paramedici telefonano ai familiari dell'uomo e ricevono un tenero consenso alla zingarata. L'ambulanza spegne le sirene (che erano già spente ma adesso di più) e imbocca la strada per il mare. Immaginate: l'odore di pino marittimo e di oleandro, l'aria salmastra, il pensiero che corre alle belle ragazze in bikini, alla sabbia sui piedi coperti da calzini di spugna e a un ghiacciolo all'amarena.
Arrivati: l'uomo è fatto scendere dall'ambulanza. La sua lettiga è di faccia al mare e tutti fanno silenzio. L'uomo guarda il mare e il mare guarda l'uomo. Qualcuno rompe il silenzio e chiede all'anziano il permesso di scattare una foto. L'uomo acconsente con la noncuranza che gli anziani riservano ai giovani e alla loro mania di dissacrare ogni cavolo di momento. Ripiomba il silenzio. L'uomo ha la mano vicino alla bocca, un tubino gli percorre la guancia e un'emozione lo perlustra.
La foto compare sui social e tutti dicono: ecco, il vecchio e il mare.
Che poi anche nel racconto di Hemingway era settembre. Ma quella era una lotta furibonda (e poi persa) per strappare alla vita un brandello ancora di giovinezza. Questa è una placida trattativa con il tempo per una onorevole resa.
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