l'appunto

P robabilmente non sarà niente di più di un incidente di percorso, certo è che ieri il timing voluto con forza da Matteo Renzi per gestire l'ingorgo istituzionale di fine gennaio ha subìto una decisa frenata. L'agenda del premier, infatti, prevedeva il via libera della Camera alle riforme istituzionali e quello del Senato alla nuova legge elettorale prima dell'elezione del nuovo capo dello Stato. Con l'obiettivo evidente di evitare che quelli che lo stesso Renzi ha definito i due «pilastri» su cui si fonda il governo potessero finire oggetto delle trattative che nei prossimi giorni (...)

(...) porteranno all'elezione del successore di Giorgio Napolitano.

Non sarà così, perché il nuovo calendario di Montecitorio uscito ieri dalla conferenza dei capigruppo lascia poco spazio a dubbi: anche lavorando in notturna, è quasi impossibile che la riforma che mette fine al bicameralismo perfetto (ieri è stato approvato il primo articolo del ddl costituzionale) possa avere il via libera prima che si chiuda la partita del Colle. Renzi, insomma, è stato costretto a cedere alle pressioni di chi non vede di buon occhio il patto del Nazareno: non solo un pezzo di Forza Italia e di Pd, ma anche il M5S. Così, alla fine il premier ha fatto buon viso a cattivo gioco e ha dato il suo placet a che si allungassero i tempi sul ddl costituzionale senza però cedere di un centimetro sul timing che deve portare all'approvazione dell'Italicum a Palazzo Madama prima del 29 gennaio. Non è un caso che ieri Renzi abbia detto chiaro e tondo ai suoi senatori che sulla riforma elettorale è «pronto a discutere» ma «entro 24 ore si deve chiudere».

Con l'avvicinarsi del voto sul Quirinale - una partita decisiva per il premier e per la legislatura - il leader del Pd è dunque costretto ad accettare il primo compromesso. Evidentemente un segno di una qualche debolezza, perché è chiaro che chi vorrà provare a sabotare la sua strategia sul Colle ora potrà usare anche il ddl sulle riforme istituzionali (sempre al netto del fatto che alla Camera i numeri della maggioranza sono piuttosto larghi).

E tra chi potrà trarre vantaggio dalla nuova agenda c'è Silvio Berlusconi. Nel caso davvero il premier sia tentato dal non allargare al Quirinale il patto del Nazareno - eventualità piuttosto remota - il leader di Forza Italia potrà infatti «rifarsi» sul ddl riforme. Perché per quanto comodi siano i numeri di Renzi a Montecitorio, se si mettesse di traverso tutto il gruppo azzurro il leader del Pd rischierebbe di veder saltare una riforma che considera un «pilastro» della sua azione di governo. Ecco perché dopo ieri l'asse tra Renzi e Berlusconi sembra essere più saldo. Perché l'ex premier ha uno strumento di pressione in più e perché sul fronte della sua minoranza interna il leader del Pd sembra fidarsi sempre meno anche dell'area più dialogante.

È vero che da Pier Luigi Bersani sono arrivate delle aperture, ma i suoi fedelissimi - Miguel Gotor per esempio - continuano ad affondare colpi. Difficile, insomma, che Renzi si affidi davvero a loro per giocarsi la partita del Quirinale.

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