L'ultimo precedente risale a cinque anni fa, quando Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini se le diedero di santa ragione durante un'indimenticabile direzione nazionale del Pdl. Era il 2010 e da allora non si è più verificato uno scontro tanto duro tra il premier e il presidente di una delle Camere. Fino a ieri, almeno. Perché al netto di due scenari diversissimi - quello tra il leader di Forza Italia e l'allora numero uno di Montecitorio fu uno dissidio non solo politico ma soprattutto umano e personale - tra Palazzo Chigi e la seconda carica dello Stato la tensione ha ormai superato il livello di guardia. Con Matteo Renzi e Pietro Grasso che, seppure con i modi ovattati imposti dal bon ton di Palazzo, sono politicamente «arrivati alle mani».
Quello di ieri, in verità, è l'apice di una tensione strisciante che va avanti da mesi, con il durissimo braccio di ferro sull'emendabilità dell'ormai mitico articolo 2 del ddl Boschi. Tecnicismi d'aula, il cui risvolto politicamente rilevante è che se Grasso riaprisse il balletto degli emendamenti ci sarebbe il rischio concreto che il provvedimento venisse modificato e dovesse ritornare alla Camera per una nuova lettura. Tradotto: le riforme finirebbero arenate, con buona pace di Renzi che, stando al mandato avuto dall'allora capo dello Stato Giorgio Napolitano, a Palazzo Chigi c'è andato proprio con il compito di rimodernare le istituzioni.
Per il governo, insomma, sarebbe una débâcle . Politica e anche d'immagine, visto quanto il premier ha voluto investire sul tema riforme. Eppure, anche se alla fine i numeri saranno dalla parte di Renzi, il passaggio di queste ore non sarà né indolore né senza conseguenze. Il pallottoliere del Senato, infatti, non sembra agitare troppo i sonni del leader del Pd che pare possa contare su circa 170 voti a favore e su una decina di eventuali assenze strategiche nelle file dell'opposizione. Il problema, però, è che anche quando il ddl Boschi sarà passato per le forche caudine di Palazzo Madama senza incidenti di percorso, resteranno comunque pesanti strascichi del durissimo scontro istituzionale tra premier e presidente del Senato. Un braccio di ferro che inevitabilmente coinvolge anche il Quirinale, nonostante il silenzio in cui si è chiuso Sergio Mattarella in queste settimane.
La sensazione, insomma, è che per Renzi sia iniziata una lenta e inesorabile fase di logoramento.
Con il premier costretto a mercanteggiare voti a Palazzo Madama come fosse in un suk, accerchiato dalla minoranza del suo partito (il Pd) e dalla maggioranza di quelli alleati (Ncd), pronto a affidarsi ai buon uffici e allo scouting di Denis Verdini e obbligato ad arruolare l'ex leghista Flavio Tosi e i suoi preziosissimi tre voti senatoriali. Uno scenario dove perde decisamente terreno il Renzi rottamatore e innovatore e si fa strada l'immagine di un premier sotto assedio.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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