
Nel Pd i riformisti provano a rialzare la testa per aprire il processo contro la segreteria Elly Schlein, dopo il flop al referendum su Jobs act e cittadinanza. Ma trovano un muro. Anzi, il bastone. L'area di maggioranza, vicina alla segretaria, consegna al Giornale la linea dura: «Nessun problema. Gori, Picierno, Guerini possono chiedere il congresso. Tutto sommato oggi il rapporto di forza è 53 % per Schlein, 47% per la minoranza. Se andiamo al congresso finisce 80 a 20 per Schlein. Non c'è partita. E loro (Picierno, Gori, Guerini) lo sanno bene, non lo chiederanno mai un congresso». Una dichiarazione di forza che però non chiude la resa dei conti. Un dirigente dell'ala riformista avverte: «Le operazioni di forza nel Pd (Renzi docet) non sono mai riuscite. Serve un bagno di realismo. Esistiamo perché esistono 12 milioni di voti. Ma non nascondiamo i problemi, che si vedono bene, dietro quei 12 milioni» dice al Giornale.
Il clima è teso. Ieri mattina Igor Taruffi, braccio destro di Elly Schlein, si aggirava nei corridoi di Montecitorio per sondare gli umori delle varie anime del partito. Un giro di consultazioni per capire quanto fosse estesa l'area di dissenso. La vicepresidente del Parlamento europeo Pina Picierno ribadisce al Giornale la richiesta di un chiarimento: «Serve riflettere e decidere sulla proposta di alternativa di governo che offriamo agli italiani e sulle alleanze che intendiamo costruire a supporto, non limitate alle sigle di partito. Un nuovo contratto sociale, che faccia emergere quello che fino ad oggi è stato escluso da un paese stanco e che guarda al passato. Dalla consultazione referendaria è emersa tutta la parzialità di quanto costruito fino ad oggi, sia in termini elettorali che sociali». La direzione potrebbe essere la sede naturale per regolare i conti tra riformisti e schleniani. Anche sulla convocazione non c'è intesa. La segretaria vorrebbe fissarla a inizio luglio. La minoranza chiede una riunione già nella prossima settimana. Su questo punto, l'area della segretaria fa notare: «Gli attacchi di Gori e Picierno non si comprendono. Il tema bisognava sollevarlo in direzione (dove sono stati tutti zitti), non dopo l'esito del voto».
Al netto del muro alzato da Schlein, che canta vittoria sulla sconfitta al referendum, i riformisti del Pd vedono il bicchiere mezzo pieno: «La sconfitta ha aperto un solco nella linea della segretaria» fanno filtrare. Sullo sfondo il tema delle regionali. In Campania il dossier De Luca è ancora aperto. E l'esito del referendum potrebbe restituire allo sceriffo maggior poter contrattuale nella scelta del candidato. C'è grande attenzione anche a ciò che accade fuori dal Nazareno. Una pattuglia di riformisti era andata all'iniziativa di Calenda e Renzi a Milano. Mettendo agli atti il feeling con quel mondo centrista. Due big del Pd, Enrico Letta e Paolo Gentiloni, non hanno votato al referendum. Mandando un segnale alla segretaria. Tutti sono in attesa dell'immancabile (nei passaggi cruciali) intervista di Dario Franceschini al Corriere della Sera con la quale darà la linea alla sua area. In quel mondo di ex Margherita qualcosa inizia a muoversi.
Pierluigi Castagnetti, uno dei fondatori del Pd, sgancia l'affondo contro Schlein: «Così si va a sbattere, cioè va a sbattere il Paese perché privo di una opposizione, senza la quale la democrazia semplicemente non esiste». Ora si attende il verdetto di Romano Prodi.