
La porta si apre e la luce obliqua taglia le prime ore di un mattino americano. La donna, dall'età indecifrabile, entra con un cappello largo, una camicia troppo grande, un sorriso che non vuole piacere. Si muove incerta, ma la sua incertezza è la parte più autentica del suo fascino. Ogni gesto sembra dire: "Non voglio essere perfetta, voglio essere vera". È così che Diane Keaton resta nel tempo, con quella goffa grazia che diventa misura del mondo, con la capacità di parlare al presente senza mai smettere di stupirsi. Un Oscar come miglior attrice (Io e Annie) e tre nomination (Tutto può succedere, La stanza di Marvin, Reds), Diane è morta a 79 anni, ma le leggende non muoiono, si dissolvono nel linguaggio, si ricompongono nelle scene. La sua è la storia di una donna che ha fatto dell'intelligenza una forma di seduzione, e della libertà un mestiere. In un'epoca che costruiva divinità di plastica, lei ha scelto di restare umana.
"Scegliere la libertà di essere poco interessante non ha mai funzionato per me", disse una volta. Non sapeva essere noiosa, né prevedibile. Ogni volta che entrava in un film, in un'intervista o in una fotografia, dava la sensazione di scardinare la regola. Un sorriso ironico, un passo di lato, una pausa troppo lunga. Era la fragilità che si fa arte, l'intelligenza che gioca con la forma. Qualche volta, a sussurrare la verità, anche un po' troppo. Negli anni Settanta fu l'immagine di un nuovo modo di essere donna. Il Padrino la impose nel cuore di una tragedia familiare. Era Kay Adams, la moglie che osserva il potere e non lo capisce fino in fondo, e per questo lo teme. È la spettatrice di un mondo maschile, l'eco dolente di una rivoluzione che non le appartiene. Poi arrivò Annie Hall (Io e Annie). La commedia di Woody Allen che cambiò il lessico del sentimento. Una storia fatta di silenzi, di timidezze, di dissonanze. Diane inventò un modo di parlare, di vestire, di essere. Con una cravatta e un gilet ridisegnò la femminilità del Novecento. Il suo stile era ironia, libertà, understatement. Non era solo moda, ma dichiarazione d'indipendenza. È la forma di trasgressione che si vede in Manhattan, sempre con Woody Allen, "Non sono una donna che vuole piacere a tutti", avrebbe detto più tardi. "Non ho mai capito l'idea che dovremmo addolcirci con l'età". Non lasciare che il tempo diventi scusa. C'è qualcosa di radicale nel suo modo di invecchiare. Niente chirurgia, niente travestimenti, niente finta giovinezza. Solo il coraggio di guardarsi allo specchio e sorridere a una ruga. "Possiamo invecchiare con grazia o con splendore. Io scelgo entrambe le cose". Era la sua filosofia: prendersi tutto, anche il rischio di essere fuori posto. Ogni anno che passava sembrava renderla più viva. Le rughe come parentesi, non come ferite. Il tempo come ironia, non come resa. Il suo volto raccontava la verità di una donna che aveva imparato a non chiedere scusa.
Dietro la scena, una vita appartata. Figlia di un ingegnere civile e di una madre fotografa, nata a Los Angeles nel 1946, studi di teatro e prime luci a Broadway. Amò Woody Allen, poi Al Pacino, poi Warren Beatty. Non si sposò mai, ma adottò due figli. Nessun rimpianto, nessuna difesa. La sua solitudine era scelta, non condanna. Aveva capito che la libertà non è un lusso: è un dovere verso se stessi. Diane Keaton è stata l'ultima erede di un cinema che sapeva parlare con leggerezza delle cose serie. Il cinema colto e ironico, dove le parole erano ancora importanti, dove la cultura pop si mescolava alla letteratura e al jazz, dove la malinconia aveva grazia. In Reds, il film politico e romantico diretto da Beatty, recitò con la voce rotta, come chi ha paura di dire troppo. In La stanza di Marvin attraversò il dolore familiare con la delicatezza di chi conosce la fragilità del vivere. E in Something's Gotta Give (Tutto può succedere) dimostrò che anche l'amore maturo può essere imbarazzo, riso, verità. E forse per questo, quando il mondo dello spettacolo iniziò a ingrigire tra remake e algoritmi, lei restò luminosa. Perché la sua ironia non aveva bisogno di effetti speciali.
Era una forma di pensiero. E forse, se avesse potuto scegliere l'ultima scena, avrebbe sorriso, aggiustato il cappello e detto con quella voce bassa, leggermente roca: "Non prendete tutto così sul serio. Ma prendete sul serio la vita".