Il lavaggio del cervello a chi vende i figli

Non accenna a spegnersi la polemica sull'utero in affitto. Una battaglia combattuta sul corpo delle donne che divide le femministe di ogni nazionalità

Il lavaggio del cervello a chi vende i figli

Non accenna a spegnersi la polemica sull'utero in affitto. Una battaglia combattuta sul corpo delle donne che divide le femministe di ogni nazionalità. Quelle che chiedono l'abolizione mondiale della pratica la ritengono una nuova schiavitù. Altre ricordano invece perentoriamente che è vietato vietare. La surrogata, come la prostituzione, è considerata una libera scelta su cui nessuno deve sindacare. Ci sono donne che arrivano ad auspicare l'avvento dell'utero artificiale per sganciare definitivamente la femminilità dalla maternità. Sostengono che i nove mesi della gravidanza siano una noia inutile da cui finalmente si potranno emancipare. Legittimano quelle donne che decidono di cederlo in cambio di denaro come se la mercificazione della gravidanza le liberasse da un ruolo materno che non desiderano più. Vogliono distinguere la gestazione dalla maternità esattamente come accade nel genere maschile. Trattarla come fosse una delle tante questioni da ridurre a stereotipo di genere su cui rivendicare pari opportunità. Sono ben contente di immaginare che una gestante possa portare in grembo un bambino senza che si instauri una relazionalità. Sognano feti e neonati senza psiche, madri surrogate fertili ma sterili di sentimenti perché non contemplano l'emotività.

Eppure sul sito di una clinica per la medicina riproduttiva, tra le più note in Ucraina, c'è una sezione dedicata alla psicologia delle madri surrogate. Proprio loro che le vendono e le catalogano per etnia e connotati fisici, rilevano conflitti psicologici laceranti che non possono celare. Descrivono queste donne come potenziali vittime di una sindrome di «annidamento». Il bambino cresce nel loro ventre, avvertono i primi movimenti, intravedono il futuro senza di loro e se ne preoccupano, perché sanno che molto probabilmente non lo rivedranno mai più. E allora devono sopire i loro istinti protettivi e i desideri materni.

Bisogna ricordare che quella maternità era stata pianificata esclusivamente per migliorare condizioni economiche disagiate. In Ucraina la rinuncia ai diritti di madre della portatrice può avvenire soltanto dopo il parto. La puerpera potrebbe decidere di non cedere il bambino ma questo, specificano sul sito, è accaduto molto raramente. Spiegano che nel 60% dei casi, nel corso della gravidanza, la donna prova ad annullare il contratto con i committenti per tenere il neonato con sé, perché lo ama e non vuole rifiutarlo. Gli psicologi della clinica si lanciano in un mirabolante paragone: per la donna rinunciare al quel figlio è come aver superato brillantemente un periodo di prova per un nuovo lavoro ma non essere stata assunta. Sopraggiungono pensieri malinconici. Può pensare di essere stata più madre lei, avendolo portato in pancia, dei suoi genitori biologici, e si chiede: «Questo figlio che ho cresciuto dentro di me è più mio che dei genitori che l'hanno commissionato, perché non ho diritto ad averlo?».

Ovviamente, assicura la nota clinica, a tutto c'è una pronta soluzione. Un super team di esperti psicologi lavora giornalmente con le donne, dall'inizio della gestazione, per ricordare loro che quel bambino non gli appartiene. Non devono affezionarsi. Non devono sviluppare nei suoi confronti nessun attaccamento e intenzioni di cura.

Le spingono a pensarlo come un oggetto, e non come a un essere animato. Il lavaggio del cervello serve a trasformare l'amore che sorge naturalmente nel più temibile dei rifiuti, quella di una mamma per il suo bambino.

karenrubin67@hotmail.com

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