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L'azzardo e il rischio del pantano di Bush jr

Gli alleati chiamati a fare pressione non interverranno. E Rohani non è così malleabile

L'azzardo e il rischio del pantano di Bush jr

La strategia di Donald Trump in questa pericolosa sfida all'Iran degli ayatollah è apparsa un po' meno fumosa dopo la sua comunicazione (nessuna domanda accettata dai giornalisti presenti) di ieri alla Casa Bianca. Dietro la retorica aggressiva del presidente, che fa temere uno scivolamento verso un conflitto dalle imprevedibili ricadute, ci sarebbe un obiettivo preciso: ottenere non la sconfitta militare o la rovina economica dell'Iran, bensì un suo chiaro cambiamento di atteggiamento in modo da renderlo inoffensivo. E soprattutto, come ha sottolineato lo stesso Trump, privo dell'arsenale nucleare cui ambisce. Non sembra però, almeno al momento, che le potenze chiamate dal presidente a far pressione su Teheran siano pronte a fare squadra con lui, né che la teocrazia iraniana e il suo bellicoso braccio militare siano disposti a lasciarsi intimidire: e soprattutto l'Iran continua a ripetere che il suo obiettivo rimane quello al quale il «martire Soleimani» ha lavorato fino al suo ultimo giorno, e cioè la cacciata delle truppe americane dal Medio Oriente.

Quella che nel medio termine potrebbe comportare il coinvolgimento degli Stati Uniti in una guerra dagli esiti solo apparentemente scontati sembra comunque una mossa mal ponderata. E se davvero l'eliminazione del generale Soleimani portasse alla terza guerra del Golfo in trent'anni, si tratterebbe certamente di quella in cui Washington si troverebbe più isolata e, al tempo stesso, confrontata al nemico più duro e con le prospettive più incerte. Proviamo a tracciare qualche parallelo storico con le due precedenti campagne militari condotte dagli Stati Uniti nella regione più «calda» del mondo.

La prima guerra del Golfo contro l'Irak dell'ex alleato Saddam Hussein fu lanciata dal presidente George H. Bush nel gennaio '91 dopo un accurato lavorio diplomatico che condusse alla costruzione di un'alleanza di 29 Paesi e all'isolamento quasi completo del regime di Baghdad. Cinque mesi prima, il dittatore iracheno aveva invaso e annesso il Kuwait, pretendendo che la sua indipendenza non avesse basi storiche. Bush senior fu abile nel porsi come garante dei Paesi arabi preoccupati delle ambizioni egemoniche del megalomane raìs, e approfittò di un momento in cui la declinante Unione Sovietica non era in grado di contrapporre una propria linea a quella americana. Sempre attento a usare le Nazioni Unite come canale attraverso cui attuare ogni sua decisione, Bush scatenò un'operazione militare poderosa e quasi chirurgica con pochissime perdite americane e decise di fermare l'avanzata alle porte di Baghdad. Nei successivi 12 anni Saddam visse nell'attesa del colpo finale, che arrivò nel marzo 2003 per iniziativa del figlio del presidente Usa che lo aveva attaccato: George W. Bush.

Bush junior agì in conseguenza dello choc provocato dagli attacchi all'America dell'11 settembre 2001, e si curò meno sia della verosimiglianza delle accuse rivolte a Saddam Hussein sia di costruire una facciata diplomatica per coprire la realtà di una guerra americana per annientare i suoi nemici più aggressivi. Si assicurò l'alleanza militare con la Gran Bretagna di Tony Blair e badò alla sostanza (o almeno così riteneva): abbattere il regime iracheno e catturare il suo capo. Gli obiettivi furono raggiunti senza troppe difficoltà in due soli mesi, ma nell'Irak «pacificato» si sviluppò una guerriglia anti americana che causò migliaia di caduti tra gli occupanti e durò anni. Anche in conseguenza di quel fallimento la presidenza Bush finì nel disonore.

Oggi Trump deve stare attento a non infilarsi - da solo o quasi - nella stessa, maledetta trappola mediorientale.

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