Milano Venerdì per il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede era stata una giornataccia: a Roma, all'inaugurazione dell'anno giudiziario, il Guardasigilli aveva sentito il primo presidente della Cassazione, Giovanni Mammone, fare a pezzi la riforma cui ha dato il nome, quella che cancella di fatto la prescrizione dei reati dal nostro ordinamento. E ieri gli va ancora peggio: a Milano, nell'aula magna del palazzo di giustizia, Bonafede vede la sua riforma bersagliata da accuse esplicite di incostituzionalità. Non solo dagli avvocati, che contestano a scena aperta l'ispiratore della riforma, Piercamillo Davigo, abbandonando l'aula quando prende la parola: ma anche dai massimi rappresentanti della magistratura milanese. La legge entrata in vigore all'inizio di quest'anno, dicono il presidente della Corte d'appello Marina Tavassi e il procuratore generale Roberto Alfonso, fa a pugni con la Carta costituzionale.
La prima a prendere la parola è la Tavassi, con un intervento dai toni pacati sullo stato della giustizia a Milano: e però quando si tratta di parlare di prescrizione, va giù piatta. «La nuova riforma - dice la Tavassi - pone inevitabili problemi in relazione ai principi costituzionali, a partire da quello della ragionevole durata dei processi». La riforma Bonafede, aggiunge, rischia di cozzare contro la Convenzione europea dei diritti dell'uomo.
La Tavassi parla con accanto i due più accesi sostenitori della riforma, Bonafede e Davigo. Entrambi accolgono senza apparente imbarazzo la bocciatura della loro creatura. Ma non sanno che è solo l'inizio. Perché poco dopo prende la parola Roberto Alfonso, procuratore generale di Milano. È un magistrato anziano ed esperto, a ridosso della pensione, poco avvezzo alle esternazioni pubbliche. Ma per il suo ultimo discorso ufficiale decide di non tirarsi indietro.
Alfonso comincia affrontando un tema negletto e impopolare: i patimenti degli imputati. «Non possiamo non tenere conto che per il cittadino imputato, assistito dalla presunzione di non colpevolezza, già solo affrontare il processo penale costituisce una pena, nel senso della sofferenza, dell'afflizione, della sofferenza, del disdoro che purtroppo nella nostra società massmediatica provoca conseguenze anche economiche». E poi ecco la stroncatura senza sfumature della riforma: «Condividiamo l'opinione di coloro i quali sostengono che la sospensione del corso della prescrizione non servirà sicuramente ad accelerare i tempi del processo, semmai li ritarderà senza limiti. Si tratta di una norma che a nostro modesto avviso presenta rischi di incostituzionalità; essa, invero, appare irragionevole quanto agli scopi, incoerente rispetto al sistema, confliggente con valori costituzionali».
Sono tre aggettivi che Alfonso deve avere soppesato a lungo, nei giorni spesi a stendere e limare la sua relazione. Il procuratore generale è consapevole della loro pesantezza. Eppure anche davanti alle parole di Alfonso né il ministro né Davigo fanno una piega. Applaudono invece a scena aperta gli avvocati, che invano nei giorni scorsi avevano chiesto al Consiglio superiore della magistratura di mandare a rappresentarlo a Milano un suo membro che non fosse Davigo. Il Csm aveva reagito stizzito, accusando i penalisti di voler limitare il diritto alla parola dell'ex pm di Mani Pulite, e aveva spedito Davigo a Milano. La conseguenza è che quando l'inviato del Csm prende la parola, gli avvocati penalisti abbandonano in massa l'aula, ostentando i cartelli con i tre articoli della Costituzione violati dalla riforma Bonafede.
Sulla protesta dei penalisti si abbatte poco dopo la condanna del leader dei magistrati, il presidente dell'Anm Luca Poniz, che parla di iniziativa «gravemente impropria», di «ostracismi preventivi», di «veti ad personam»; difende la riforma Bonafede a spada
tratta, accusa i politici che la contestano e vogliono azzerarla di essere dei «garantisti à la carte». Ma della incostituzionalità denunciata dalla Tavassi e da Alfonso, il presidente Poniz sembra non darsi pensiero. LF
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