«La Francia è la luce del mondo. Il suo genio è illuminare l'universo». L'ha detto Charles de Gaulle una sessantina di anni fa e il successore Emmanuel Macron sembra seguire volentieri le sue orme. Di recente, in visita a una base militare, si è fatto fotografare in divisa da Top Gun, primo inquilino dell'Eliseo dai tempi del generale ad apparire pubblicamente in uniforme. «Non voglio essere un presidente normale», ha detto, in evidente riferimento allo sfortunato François Hollande. Tutto il contrario: il giovane leader ha pubblicamente paragonato il proprio ruolo a quello di «Giove, re degli dei», che governa, solenne e distante, le cose del mondo dall'alto dell'Olimpo. Il fondatore della Quinta Repubblica sarebbe stato d'accordo. Nel discorso ai Parlamentari riuniti tra gli ori di Versailles Macron ha scandito per cinque volte la parola grandeur. «Il mondo e l'Europa hanno bisogno di una Francia forte, con il senso del proprio destino».
Il presidente «europeo» appare francesissimo nell'enfasi attribuita alla missione «universale» dell'Esagono. Tutto il Nord Africa (e in realtà quasi tutta l'Africa, almeno quella francofona) è il giardino di casa della Francia «civilizzatrice». Ovvio che Macron si dia da fare in Libia. E allo stesso modo gestire i destini di un'impresa simbolo, a costo di una nazionalizzazione, rientra tra i compiti naturali di un presidente che si rispetti. Nel 2005 il governo di Parigi arrivò a definire «strategica per l'interesse nazionale» un'azienda che produceva yogurt come Danone per evitare che finisse nelle mani dell'americana Pepsi. Da allora poco o nulla è cambiato.
Il riflesso della Grande Nation, resta un elemento importante nella politica francese. Anche per i dividendi in termini di popolarità che è in grado di distribuire. E, nonostante possa sembrare paradossale, di popolarità Macron ha un gran bisogno. In pochi mesi ha cambiato il volto politico del Paese, con una campagna elettorale che rimarrà nella storia. Ma governare, specie se ci si propone di cambiare radicalmente le cose, è un altro mestiere. Gli ultimi sondaggi sono un campanello d'allarme: rispetto a giugno ha perso il 10% dei sostenitori; un calo del genere non si vedeva dai tempi di Chirac, più di 20 anni fa. Certo, le prime rilevazioni mensili non sono indicative delle tendenze di lungo periodo. Basta pensare che a due mesi dall'elezione Hollande godeva di un tasso di approvazione del 56%, mediamente alto e superiore di due punti a quello del presidente attuale. Ma il dato scomposto presenta alcune particolarità: il sostegno per il giovane presidente è crollato del 18% tra i dipendenti pubblici, e del 14% nella fascia d'età più vicina alla pensione. Sono due tra le categorie che saranno più colpite dalle riforme annunciate da Macron. Per lui la battaglia vera, forse decisiva per tutto il suo mandato, si aprirà in autunno.
Le promesse elettorali dovranno tradursi in realtà. Nel programma del leader di En Marche c'è la riduzione del deficit sotto il 3% (non accade da 10 anni), tagli sostanziali nell'amministrazione pubblica, una riforma delle pensioni che avvicini gli assegni ai contributi versati, una sorta di Jobs Act, che renda più facili i licenziamenti. Il sindacato più potente e combattivo, la Cgt, ha già proclamato una giornata di mobilitazione per il 12 settembre.
Lui, il presidente, non si fa illusioni: «La Francia resiste ai cambiamenti», ha detto. C'è già chi pensa che farà la fine di Sarkozy, un altro riformatore liberale paralizzato da veti e proteste.
Lo scontro con il capo di Stato maggiore Pierre de Villiers non è di buon auspicio: de Villiers ha dato la dimissioni quando ha scoperto che l'aumento delle spese militari promesso prima del voto si era trasformato in un taglio di quasi un miliardo.La partita sarà dura. Il protagonismo sul piano internazionale serve forse anche a preparare il terreno per l'autunno. Ma alla lunga a contare sarà l'economia. Anche la grandeur ha bisogno di soldi.
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