«Non capirai mai niente dell'Italia», gli disse una volta Antoine Bernheim, il banchiere di Lazard che è stato suo mentore. E Vincent Bollorè avrebbe dovuto ascoltarlo.
Nato il 1 aprile del '52 a Boulogne-Billancourt, è figlio di Michel Bolloré che ha costruito le sue fortuna con i fratelli grazie con un'azienda che produceva carta sottile per sigarette, in una piccola cittadina della Bretagna. La prima scalata del giovane Vincent avviene proprio in famiglia quando chiede al barone Edmond de Rothschild di finanziare il piano di rilancio della cartiera all'insaputa del padre e degli zii.
Mentre in Francia il finanziere vuol dominare le aziende che lo interessano, la sua campagna d'Italia parte con un approccio più misurato. Nel 2002 entra in Mediobanca per difendere Vincenzo Maranghi e ci rimane anche quando ad diventa Alberto Nagel. Sempre con una quota dell'8%, mai superiore a quella di Unicredit, il primo azionista italiano. L'obiettivo è la partecipata Generali, di cui è vicepresidente fino al 2013 (ne detiene anche lo 0,13%): proprio nel 2002 Bernheim era tornato alla guida del Leone di Trieste. Altri progetti di Bolloré in Italia si formano a Villa Montmorency, dove vive l'amico Tarak Ben Ammar, conosciuto nel 2002 alla proiezione di «Femme Fatale», che l'anno dopo Ben Ammar entra nel cda di Mediobanca. Ed è attraverso di lui che si intensificano i contatti con Silvio Berlusconi. La partita intorno ai media ha inizio nel 2014, quando Bolloré, oramai secondo azionista di Piazzetta Cuccia, arriva al vertice di Vivendi. L'anno seguente entra in Telecom attraverso Telefonica, ottenendo azioni in cambio della vendita di asset in Sud America: da quel nocciolo del 5% è poi diventato primo socio. E il misurato Bollorè italico ha cominciato ad avere ambizioni di controllo sempre più invasive dimenticando i consigli di Bernheim. Da Tim a Mediaset, la creatura televisiva del Cav: più che un guanto di sfida, un assalto ostile iniziato arrivando in soccorso su Premium, per poi rovesciare il tavolo qualche mese dopo rinnegando accordi e contratto con una battaglia legale ancora aperta.
Ora la strada italiana si è fatta improvvisamente in salita: lo sperato asse con Generali e Unicredit, dove siedono due manager francesi amici suoi, non gli ha garantito quella capacità di manovra che forse si aspettava quando ha deciso di giocare da padrone in Tim. Senza molti riguardi nei confronti del governo che, in attesa dei nuovi inquilini di Palazzo Chigi, ha schierato la Cdp sulla metà campo degli americani di Elliott. Quanto a Mediaset, Bollorè ha dovuto trasferire al trust Simon Fiduciaria il 19,19% del Biscione (di cui con Vivendi è secondo azionista con il 29%) per rispettare le regole sulla concorrenza. Infine l'accordo tra Sky e Mediaset che taglia fuori i francesi dal polo unico delle pay tv.
Ma è soprattutto il vento in patria è cominciato a cambiare. Fino a pochi anni fa Bollorè era considerato un uomo centrale nel sistema economico nazionale. Intimo di Nicolas Sarkozy (tutti ricordano lo yacht Paloma prestato per festeggiare la vittoria del 2007), è riuscito ad avere entrature con la sinistra grazie alla «lobby bretone» di cui faceva parte l'ex consigliere di François Hollande, Bernard Poignant. Conosce anche Emmanuel Macron da quando il Presidente era ministro dell'Economia e tentò invano di riorganizzazione il mercato delle tlc. Qualcosa però si è incrinato e non è un caso, fa notare qualcuno, che il fermo di Bollorè sia scattato mentre Macron è negli Usa da Trump. Si aggiungono i contenziosi legali con i giornalisti dell'emittente pubblica France 2 a cui Bollorè ha chiesto un risarcimento record.
La notizia di ieri, dunque, non ha scosso più di tanto i salotti della finanza parigina. Che fosse una questione di giorni lo avevano intuito all'assemblea di Vivendi, il 19 aprile, quando ha ceduto la presidenza al primo dei suoi quattro figli, Yannick.
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