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Ma il liberismo non è di sinistra

Ma il liberismo non è di sinistra

C'è qualcosa di generoso e al tempo stesso, però, d'ingenuo nell'invito lanciato al Pd da Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, che sul Corriere della Sera hanno chiesto alla sinistra a dieci anni di distanza da un volume scritto a quattro mani di abbracciare il liberismo e accantonare l'assistenzialismo.

Il pezzo va apprezzato nel momento in cui cerca di orientare gli eredi di Enrico Berlinguer e Aldo Moro, affinché comprendano l'importanza del mercato, della libera iniziativa, della concorrenza. Una sinistra ostile alla tassazione e alla regolamentazione sarebbe da salutare con favore, specialmente se rifiutasse l'idea di distribuire sussidi, mantenere in vita aziende pubbliche, controllare i mercati.

Una cosa, però, sono i sogni e altra cosa la realtà. In particolare, è difficile seguire il ragionamento di Alesina e Giavazzi quando essi affermano che il liberismo è «di sinistra» se per sinistra s'intende più libertà e meno Stato. Purtroppo per loro e per noi, le cose non vanno in questo modo.

Da tempo, in effetti, la sinistra ha sposato logiche interventiste, le quali giustificano l'azione pubblica nel mercato al fine di favorire la crescita, tutelare l'ambiente, soccorrere i più deboli. In fondo, non c'è molta distanza tra gli 80 euro di Matteo Renzi e l'assegno d'inclusione che alla fine non sarà molto più consistente promesso dai populisti al governo.

Giavazzi e Alesina hanno ragione quando sottolineano che i mercati aiutano i deboli più di quanto non faccia il paternalismo di Stato. La loro stessa riflessione, però, mostra qualche limite quando cerca di coniugare la tradizione liberale con qualcosa che con essa non ha molto a che fare.

In effetti, i due studiosi sostengono che gli obiettivi che la sinistra persegue possono essere raggiunti adottando politiche liberali, ma sembrano ignorare un punto cruciale: e cioè che esiste una differenza fondamentale tra gli obiettivi redistributivi della sinistra e quelli di un ordine liberale. Il liberalismo, infatti, è innanzi tutto una teoria della giustizia, che pone al centro la tutela della proprietà e, ancor prima, che rinvia a criteri che definiscono come ci si possa legittimamente appropriare del mondo esterno e come si possano scambiare beni acquisiti in maniera legittima.

Quando invece si pensa che il fine dell'ordine giuridico sia la riduzione delle diseguaglianze e la crescita della mobilità sociale si adottano altre logiche. È possibile che una società di mercato ottenga talvolta pure questi risultati: essa è giusta, però, non per tale ragione, ma perché minimizza (o elimina del tutto) ogni forma di aggressione e ogni dominio dell'uomo sull'uomo.

Viviamo tempi difficili, in cui s'affermano forze politiche e culturali che hanno ereditato il peggio della destra e della sinistra, operandone una sintesi miserevole.

È però difficile che una via d'uscita da questa situazione possa venire da forze politiche da sempre inclini al moralismo, alla pianificazione e alla redistribuzione.

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