Libia, rischi e sfide di un intervento italiano

Parigi e Londra premono per un'azione militare. Ma serve cautela

Soldati italiani in Afghanistan (foto di Mauro Consilvio)
Soldati italiani in Afghanistan (foto di Mauro Consilvio)

«Non rincorriamo le bombe degli altri». L'immancabile cinguettio quotidiano di Matteo Renzi spiegava così, il 6 dicembre scorso, la necessità di subordinare un intervento militare in Libia ad un piano politico strategico concertato con gli alleati. Sante parole vista la disastrosa avventura del 2011, che però non tenevano conto della scarsa attenzione dedicata in precedenza dallo stesso premier al deterioramento della situazione libica. E così a un mese di distanza da quel tweet l'Italia sconta il tempo perduto e rincorre non solo l'avanzata dello Stato Islamico, ma anche l'improvvisa smania interventista di Francia e Inghilterra e il risveglio di una Casa Bianca nuovamente attenta alle vicende della nostra ex colonia. Il tutto mentre lo svezzamento del cosiddetto governo di unità nazionale affidato al «carneade» Fayez Al Sarraj si rivela più lungo e complesso del previsto.Ma cominciamo dalle urgenze. La più pressante è l'avanzata del Califfato che lunedì ha attaccato Sidra, il più importante terminale petrolifero della Cirenaica, 191 chilometri ad est di Sirte. Quel balzo in avanti, respinto a fatica dalle milizie di Ibrahim Jadran, un capo banda autonominatosi signore e guardiano delle installazioni petrolifere, fa capire che lo Stato Islamico punta, come in Siria, al controllo del greggio della Cirenaica. Lo stesso greggio che nel 2011 faceva gola a Parigi e Londra. E così - mentre il Califfato prepara un balzo di altri 150 chilometri verso i terminali Ras Lanuf, Marsa al Brega e Ajdabya - Parigi e Londra fanno capire d'esser impazienti d'intervenire nella nostra ex colonia. Prova ne sia lo spazio dedicato dai quotidiani inglesi alle indiscrezioni sull'arrivo in Libia di un distaccamento di forze speciali mandate a preparare il dispiegamento dei 6mila militari francesi, britannici ed italiani a cui spetterebbe il compito di fermare il Califfato. Tutta questa fretta è esattamente quello di cui l'Italia non ha bisogno. La brutta figura rimediata il 31 dicembre dall'inviato dell'Onu Martin Kobler, cacciato dall'aeroporto di Mitiga a Tripoli, dà la misura di quanto sarà difficile far sbarcare nella capitale il governo di unità nazionale di Al Sarraj. Ancor più difficile sarà, però, metter insieme una forza armata locale in grado di «coprire» il dispiegamento dei paracadutisti italiani incaricati di proteggere premier e ministri in una capitale controllata da una coalizione islamista poco disponibile a rinunciare all'egemonia politico militare. Il non facile compito è nelle mani del generale Paolo Serra che, in veste di consigliere militare di Kobler, incontra in questi giorni capi banda e miliziani di Misurata, Zintan, Tripoli e Sabratha. Mettere insieme una forza, anche solo di facciata, è fondamentale per risparmiarci la scontata accusa di neo colonialismo su cui punteranno Stato Islamico, milizie jihadiste e i tanti nemici del governo Sarraj per giustificare minacce e attacchi al contingente straniero. Ma la costituzione d'una forza locale in grado di subentrare alle nostre truppe è fondamentale anche per evitare un impantanamento prolungato nelle sabbie libiche. Un impantanamento che - vista la presenza di truppe italiane in Afghanistan, Iraq, Kosovo e Libano - renderebbe assai complessa una rotazione di unità capaci di garantire l'addestramento e l'efficienza necessarie per affrontare la complessa situazione libica. E la presenza di alleati locali è ancor più indispensabile in un paese grande tre volte la Francia dove solo la zona costiera si estende per duemila chilometri.

Il contingente di seimila uomini ipotizzato dai quotidiani inglesi basterebbe a malapena per garantire la sicurezza del perimetro di Tripoli. Un problema non da poco in un paese dove l'unica forza dotata di una vaga struttura militare è l'Esercito Nazionale Libico del generale Khalifa Haftar.

Un generale visto come il fumo negli occhi appena fuori da quella Tobruk dove il governo - cacciato nell'agosto 2014 da Tripoli - l'ha nominato capo di stato maggiore. Ed il problema è proprio questo. Mentre inglesi e francesi esibiscono la stessa fretta del 2011 all'Italia non manca solo un piano, ma soprattutto un "rais" o un alleato locale in grado di realizzarlo.

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