L'apocalisse che è in noi dal Manzoni agli zombie

L'apocalisse che è in noi dal Manzoni agli zombie

L'apocalisse ha spesso preso le sembianze della epidemia e del contagio inarrestabile. L'arte, in tutte le sue espressioni, riflette il nostro timore di essere spazzati via da un morbo incurabile, che ci trasforma e ci uccide. La natura o la mano imperscrutabile di Dio si abbatte sull'umanità. Saremo capaci di reagire?

Per un italiano, l'epidemia più famosa è la peste nei Promessi sposi di Alessandro Manzoni. Lo scrittore ricostruisce il flagello che travolse Milano nel 1630-1631. Ne escono pagine insuperabili, in cui Manzoni mostra come l'apocalisse sia assecondata dal sonno della ragione. La caccia all'untore, la superstizione, le processioni fuori luogo, la vigliaccheria, i tribunali ingiusti, i politici pavidi: Manzoni srotola davanti ai nostri occhi il campionario del lato oscuro dell'anima. Ma ci sono anche i gesti generosi, il sacrificio dei giusti, l'abnegazione dei santi. I capitoli sono il XXXI e il XXXII ma la scena più forte è all'inizio del XXXIII. Don Rodrigo si sveglia dopo una notte agitata e scopre di essersi ammalato. La sua alterigia è annullata: «Insieme si sentiva al cuore una palpitazione violenta, affannosa, negli orecchi un ronzìo, un fischìo continuo, un fuoco di dentro, una gravezza in tutte le membra, peggio di quando era andato a letto. Esitò qualche momento, prima di guardar la parte dove aveva il dolore; finalmente la scoprì, ci diede un'occhiata paurosa; e vide un sozzo bubbone d'un livido paonazzo. L'uomo si vide perduto: il terror della morte l'invase, e, con un senso per avventura più forte, il terrore di diventar preda de' monatti, d'esser portato, buttato al lazzeretto».

La peste del Manzoni è l'epidemia più famosa. Ma certo non è l'unica. Prima, c'è la peste nera di Boccaccio, il Decameron nasce come «distrazione» mondana nella Firenze devastata dal male nel 1348. Un gruppo di giovani fugge in campagna nell'attesa che la strage finisca e per ricrearsi (e ricreare l'umanità) si intrattiene raccontando novelle. Celebre è anche la peste dell'omonimo romanzo di Albert Camus. Questa volte la morte si presenta alle porte della città algerina di Orano, in un imprecisato aprile degli anni Quaranta. La metafora è scoperta. La peste è innanzi tutto morale. L'elenco sarebbe infinito. Segnaliamo, a testimonianza di un interesse costante della letteratura per questo tema, il recentissimo Happy Hour (Bur) di Ferruccio Parazzoli. Siamo a Milano, ai giorni nostri, e impazza una inspiegabile epidemia di suicidi. All'aggravarsi del morbo, la città è messa in quarantena.

Per il cinema, la pandemia, cioè un'epidemia su territori vastissimi, è quasi un luogo comune. Il contagio avviene con violenza, si parte dagli zombie degli anni Trenta (L'isola degli zombies) e si arriva agli zombie di The Walking Dead passanto per gli zombie anni Settanta, avidi di carne umana e critici del consumismo (L'alba dei morti viventi di George Romero). Anche i virus hanno avuto gloria cinematografica: ci sono le febbri mortali di Contagion, L'esercito delle dodici scimmie, I sopravvissuti (celebre serie tv del 1975). Poi c'è il virus del vampirismo che si diffonde tra le pagine di un classico del genere, Io sono leggenda (Fanucci) di Richard Matheson, passato più volte dalle librerie alle sale cinematografiche.

La peste è al centro di molti affreschi e dipinti. Tra i più famosi, in Italia, c'è il Trionfo della Morte, un affresco quattrocentesco staccato e conservato nella Galleria regionale di Palazzo Abatellis a Palermo. Ci sono poi Mattia Preti, Tanzio da Varallo, Gros e moltissimi altri.

Al Louvre di Parigi è invece esposta La peste di Azoth dipinta da Nicolas Poussin nel 1631. Illustra la peste peggiore, quella del libro di Samuele, nel quale Dio, dopo aver accusato i Filistei di aver rubato l'Arca dell'Alleanza, invia come punizione la piaga appunto biblica.

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