Cronache

L'inchiesta farsa sui pedofili che sconvolse l'Emilia

Nel 1998 un'indagine ipotizzò riti satanici e bimbi uccisi al cimitero. Era un abbaglio che distrusse moltissime vite

L'inchiesta farsa sui pedofili che sconvolse l'Emilia

Le lacrime. Tante, troppe. Il pianto di don Giorgio Govoni, accasciato su uno sgabello nello studio del suo avvocato: «Mi accusano di aver commesso un crimine orrendo - mi confidò quella sera, affidandomi una sorta di testamento spirituale - Avrei violentato dei bambini, ma non ho fatto niente». Il dolore di Lorena Covezzi: «Io e mio marito Delfino avevamo quattro bambini meravigliosi che andavano a scuola, a ginnastica, al catechismo e facevano la vita del paese. Poi una mattina, il 12 novembre 1998, ci siamo trovati la polizia in casa e ce li hanno tolti, dicendoci che non abbiamo saputo vigilare su di loro. Non sappiamo più nulla: è come se fossero morti».

Facce smarrite. Occhi che non sopportano gli sguardi gelidi dei tanti indignati in circolazione: fra il 1997 e il 1998 l'inchiesta sulla pedofilia nella Bassa Modenese porta a un domino di arresti e processi, mentre i piccoli vengono allontanati dalle famiglie che si sarebbero macchiate di quelle colpe spaventose. Ma c'è qualcosa, anzi molto che non torna in quell'indagine devastante. Possibile che in un fazzoletto di pochi chilometri quadrati ci sia una colonia intera di persone dedite a quelle turpi pratiche? E poi i fatti descritti dai minori contrastano in modo plateale con le vite piatte di quelle famiglie sbiadite di provincia. Accoppiamenti fra neonati, riti satanici, messe nere al cimitero di Massa Finalese, perdipiù ad orari impossibili, quando i piccoli Covezzi e gli altri protagonisti dovrebbero essere sotto le coperte.

I verbali dei fanciulli sono da brivido: «Anch'io ho dovuto partecipare con le mie mani all'uccisione di una bambina. Questa bambina è stata uccisa al cimitero con un coltello, piantato nella pancia e nel cuore Mentre le infilavo il coltello, la bambina ha gridato e le è uscito sangue. Io ero molto impaurita e mi sentivo male perché l'avevo uccisa proprio io». Si può credere ad uno scempio del genere? È l'obiezione banale che muovo un giorno che arrivo in procura a Modena. Il pm mi risponde per le rime: «Stiamo dragando il fiume alla ricerca dei cadaveri e poi ci potrebbero essere bambini stranieri, la cui scomparsa non è stata denunciata».

Follia. Oggi sappiamo che quel fascicolo è stato un clamoroso flop, un abbaglio colossale, una sequenza incredibile di errori, a cominciare dalle modalità degli interrogatori delle presunte vittime. Ma quell'incartamento ha seminato lutti, ha costruito condanne che ora vengono cancellate, ha spezzato famiglie che non si sono più ricomposte. Un catalogo di orrori che lascia sgomenti. Don Giorgio, il prete camionista, muore su quella sedia, nell'anticamera dello studio del suo difensore, alla vigilia della sentenza, il 19 maggio 2000; tredici anni più tardi, nel 2013, nell'attesa faticosissima di un verdetto definitivo di assoluzione che tarda ad arrivare, se ne va, sempre d'infarto, anche Delfino Covezzi, stremato da un'esistenza che non gli appartiene più. I quattro figli, come quelli delle famiglie vicine, completano la sua rovina e quella della moglie. Nelle deposizioni, sollecitate dagli assistenti sociali, spiegano di aver subito violenza anche da mamma e papà. In primo grado le condanne arrivano a grappoli. Lorena, che è scappata in Francia come una profuga, si prende dodici anni. Ma il suo cruccio è un altro: quei quattro ragazzi che le buttano addosso accuse spaventose.

È tutto sproporzionato: i reati, indicibili, sembrano trasmettersi per contagio, come la peste: quel che avrebbero fatto i genitori viene attribuito fatalmente anche a zii e nonni, in un crescendo incontenibile. Qualcuno muore. Qualcuno si uccide. Qualcuno viene condannato con sentenza definitiva. Altri vengono finalmente assolti. E c'è chi gioca la carta della revisione. I Covezzi ritrovano l'innocenza nel 2010 e pure don Giorgio viene riabilitato, ma la giustizia arriva fuori tempo massimo, sulla lapide di un camposanto. Sedici piccoli sotto stati affidati ad altre famiglie e ormai il disastro è irreversibile. Nel 2021 Davide, il bambino zero, quello da cui tutto è partito, dà un'intervista a Repubblica che è peggio di una confessione: «Mi sono inventato tutto. Non c'erano abusi e non c'erano nemmeno riti satanici. Ricordo colloqui anche di otto ore. Psicologa e assistenti sociali non smettevano finché non dicevo quello che volevano loro. Mi dicevano che ero coraggioso». Una catena di montaggio di accuse velenose che hanno sfasciato tante famiglie. E alcuni nomi di presunti esperti, sempre gli stessi, che ritorneranno tanto tempo dopo a Bibbiano dove avverrà qualcosa di simile.

Ma quel che non si può quasi raccontare è il dolore senza fondo di una madre. «Dal novembre '98 sono trascorsi quasi ventiquattro anni - spiega dalla Francia dove vive in una sorta di esilio con il quinto figlio, nato dopo la fuga, Lorena Covezzi - ventiquattro anni di sofferenze, di umiliazioni, di offese. Da un momento all'altro non ho più avuto alcuna notizia dei miei bambini. Nemmeno un colloquio, nemmeno una lettera, e se mandavo un regalo mi tornava indietro. C'era da impazzire e mi sembrava impossibile perché fino al giorno prima era stato tutto normale. Ma il peggio è venuto dopo, dopo chissà quanti interrogatori e incontri che avranno avuto con investigatori e magistrati: è terribile sentire in aula i tuoi ragazzi che puntano il dito contro di te e ti incolpano e ti rovesciano addosso calunnie su calunnie, come se tu non li avessi mai amati e protetti».

Quella ferita nella Bassa non si rimarginerà più.

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