Qualcuno punta il dito su misteriosi e sconosciuti terroristi. Ma è un grazioso eufemismo. Dietro i due missili che ieri hanno colpito e danneggiato la petroliera iraniana Sabiti al largo del porto saudita di Jedda, mentre risaliva il Mar Rosso diretta verso la Siria, si cela un conflitto tanto segreto, quanto inconfessabile. Un conflitto che da mesi contrappone Iran e Arabia Saudita, i due produttori di greggio, capofila delle coalizioni sciite e sunnite, che in Siria, Yemen e Irak, si affrontano in una ben più esplicita guerra su procura affidata a milizie e bande armate. E nell'ombra dell'Arabia Saudita, principale nemico regionale della Repubblica Islamica, si muovono gli Stati Uniti e uno stato d'Israele che vede in Teheran il suo nemico esistenziale. L'attacco di ieri, per quanto gli iraniani non parlino di vittime o feriti, rappresenta un'altra seria evoluzione di un conflitto combattuto fin qui sotto-traccia. Non solo perché sposta lo scontro dallo stretto di Hormuz al Mar Rosso, ma anche perché il presunto lancio di missili dai territori sauditi farebbe ricadere la responsabilità dell'attacco direttamente su Riad. Ovviamente è presto per trarre conclusioni.
Fonti saudite alludono a una montatura iraniana facendo notare come nelle foto diffuse da Teheran non si vedano danni compatibili con l'esplosione di due missili. Comunque sia l'episodio segna un'«escalation» di quella «guerra delle petroliere» iniziata a metà maggio con gli attacchi a quattro navi cisterna battenti bandiera di Norvegia, Emirati Arabi e Arabia Saudita. In quel primo episodio le navi vengono danneggiate dalle mine piazzate da misteriosi incursori entrati in azione nel porto emiratino di Fujairah. Quando, il 13 giugno, la petroliera giapponese Kokuka Corageus e quella norvegese Font Altair subiscono un attacco simile nello stretto di Oman, soltanto un repentino voltafaccia del presidente americano Donald Trump evita uno scontro diretto tra Stati Uniti e Iran. L'abbattimento di un drone americano in missione sulle coste iraniane innesca infatti un progetto di rappresaglia contro le basi missilistiche di Teheran, bloccato dalla Casa Bianca mentre i cacciabombardieri sono già in volo.
Intanto però, lo scontro si allarga. Mentre nel Golfo già opera una flotta americana guidata dalla portaerei Abraham Lincoln, incaricata di proteggere le rotte del greggio, Washington dispiega un contingente di un migliaio di marines nel regno saudita. Teheran, nel frattempo, nega ogni responsabilità e fa notare come l'attacco alla nave giapponese avvenga in coincidenza con l'incontro tra la suprema Guida iraniana Alì Khamenei e il premier giapponese arrivato a Teheran per mediare tra Stati Uniti e Repubblica Islamica. A rendere incandescente la tensione s'aggiunge, il 14 settembre, l'altrettanto misterioso attacco a colpi di droni e missili contro le raffinerie saudite di Abqaiq and Khurais. Mentre Teheran nega ogni responsabilità, i ribelli Houti dello Yemen fanno di tutto per attribuirsene la paternità. La rivendicazione suona però poco plausibile vista la lontananza dell'obbiettivo dallo Yemen e la precisione con cui vengono gestiti droni e missili.
Nella trama oscura di questo conflitto a bassa intensità guidato da attori senza volto individuare mandanti e vittime è dunque sempre più complicato.
Non a caso nelle liste dei sospettati per l'attacco di ieri a una petroliera iraniana, pronta a rompere l'embargo energetico contro la Siria, rientra anche un Pentagono incaricato da Trump di rispondere alle mosse di Teheran solo e soltanto con rappresaglie clandestine.
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