La motonave Superba parte due volte a settimana dal porto di Livorno per Gorgona, un'isola lontana 34 chilometri, e scarica al porticciolo le poche persone che arrivano qui. Vedremo chi sono.
Prima parliamo dell'unica abitante permanente e volontaria dell'isola, Citti Luisa (cognome e nome, come dice lei), che ha 92 anni ma scende le scale con destrezza per farci vedere la sua casa, una sfilza di camere ingombre - c'è un tocco di senile accumulazione - di vestiti, libri, pupazzetti e cartelli coi numeri di telefono di emergenza scritti belli grossi, e fotografie del marito morto e dei figli che stanno a Firenze, e due gatti sulle sedie che quando ti avvicini scappano soffiando. Si fa fotografare, Citti Luisa, con la foto di quando era giovane e bella, con un lampo di mai doma vanità. Poi ci saluta e ci dice: «Tornate presto».
Non sarà facile. Perché a Gorgona non è che vai quando vuoi. Citti Luisa è - per dire - l'unica che può scegliere di andarsene, anche se non lo farà. Gli altri abitanti dell'isola sono 95 detenuti e 24 agenti di polizia penitenziaria. Poi trascorrono ore o giorni qui anche il direttore Carlo Mazzerbo, siciliano, educatori del carcere di Livorno da cui dipende la colonia penale di Gorgona, operai per le necessarie manutenzioni necessaria, due volte a settimane escursionisti in visita guidata e vigilata, con documento da mostrare. E poi enologi e agronomi.
Perché su quest'isola si fa un vino bianco da uve Ansonica e Vermentino, tropicale al naso e assai salino in bocca, dall'etichetta bellissima. Costa un sacco di soldi, su Tannico lo vendono a 75 euro la bottiglia (verificato ieri). In fondo ci sono vini migliori sul mercato per quella cifra. Ma questo vino è un atto di sfida, un'operazione di marketing idealistico, una follia imprenditoriale. Il vino è fatto con le uve delle tre piccole vigne dell'isola per un totale di 2,3 ettari che al massimo, strappando altra terra alla pietra e al bosco, potranno in futuro diventare 2,6. Le bottiglie della vendemmia 2018, la settima, sono 9mila in tutto. L'enologo è Federico Falossi e in vigna lavorano Andrea, di anni 46, Hasa, di anni 43, e Astrit, di anni 46. Tutti e tre albanesi e detenuti. Assunti come vignaioli dalla Frescobaldi, che cura il progetto enologico, con uno stipendio di mercato che loro mandano ai familiari. A Gorgona non ci sono occasioni per spenderlo, c'è un solo spaccio dove il calciobalilla è gratis e la birra gelata - che loro non possono bere - costa solo un euro.
Andrea è stato condannato per concorso in un omicidio compiuto a Milano. Ha fatto undici anni a Volterra, poi è arrivato qui, dove dovrebbe restare fino al 2025. Colpevole? Innocente? Vai a sapere: condannato. «Qui sono felice - ci dice con un sorriso pieno di oro - e quando esco se mi vogliono continuo a lavorare in vigna». Vicino il lungagnone Astrit è il più vicino al fine pena. «Mi mancano due vendemmie», dice orgoglioso.
A Gorgona vengono spediti i detenuti a fine pena che gli educatori ritengono più adatti. Niente condanne per reati di associazione o per reati socialmente aberranti e solo detenuti con un «curriculum» (così ci dice l'ispettore superiore di polizia penitenziaria Emilio Giusti) di tutto rispetto. L'idea è instradare i detenuti più volenterosi a un reinserimento nel mercato del lavoro, abbattendo quella recidiva che è il vero fallimento dell'utopia riabilitativa della detenzione.
Lamberto Frescobaldi ringrazia ancora i colleghi che non risposero alla mail con cui sette anni fa l'amministrazione carceraria di Livorno invitò le aziende vitivinicole toscane a collaborare al progetto Gorgona. «Rispondemmo solo noi. Ci dissero: non innamoratevi del progetto. Non ci siamo riusciti. Educhiamo i detenuti non alla vigna ma al lavoro. Al piacere di fare una cosa ogni giorno e farla bene».
Non è un paradiso, si badi. Il carcere con l'acqua al posto delle mura ogni tanto mostra il cartellino del prezzo attaccato a ogni sogno: è lontano il 2004 quando cui due detenuti finirono ammazzati in faide nel giro di poche settimane. Ma a Gorgona si lotta di continuo coi soldi che non bastano, con le strutture che cadono a pezzi, con la difficoltà negli approvvigionamenti.
A volta vien voglia di farla finita con l'isola cella lussureggiante, com'è da 150 anni.Per Citti Luisa il senso ce l'ha. I detenuti la fanno sentire meno sola. «Ogni giorno passano e chiedono se mi serve qualcosa». Tra lei Astrit, Andrea e Hasa chissà chi se ne andrà prima da qui.
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