Una Schindler's list ma al contrario. Il Pd renziano cerca di militarizzarsi per raccogliere le 500mila firme necessarie ai comitati per il «Sì» per costituirsi ufficialmente e accedere ai rimborsi elettorali che nel caso del referendum costituzionale non sono legati al quorum. Il partiti non risparmia nessun suo componente e, ovviamente, la raccolta è partita in tutti e due i rami del Parlamento.
Martedì scorso a Montecitorio, ha segnalato l'agenzia Dire, si è presentato negli uffici dei gruppi un solerte funzionario del Nazareno per chiedere ai dipendenti di firmare per il «Sì» al referendum. La scena si è ripetuta giovedì al Senato. L'iniziativa, di per sé più che legittima, non si profila come innocua. L'emissario del Partito democratico, infatti, aveva con sé un modulo per registrare le adesioni contenente l'elenco completo dei dipendenti: a fianco di ciascun nome era presente una casella, spuntata solo in caso di firma. Il Comitato per il «Sì», che Renzi vuole istituire in ogni posto di lavoro (a cominciare dal partito) si tramuta, in questo caso, in una lista dei buoni (quelli che firmano) e cattivi (quelli che non lo fanno).
Si capisce bene che questa modalità limiti molto la libertà di scelta. A Palazzo Madama, destinato a diventare un dopolavoro di sindaci e consiglieri regionali, i dipendenti del gruppo Pd sono in capo al partito e non al Senato. Facile immaginare che la conferma del posto di lavoro potrebbe dipendere dalla solerzia con la quale si aderisce alla causa. Ecco perché giovedì scorso è scoppiato il panico e alcuni hanno preferito non farsi trovare per non farsi sottoporre al giudizio. Ai colleghi della Camera è andata peggio perché mercoledì il funzionario si è ripresentato per cercare di «beccare» gli assenti. Il venerdì, invece, è praticamente vacanza.
Non tutti i dipendenti, però, hanno fatto il proprio «dovere». Anzi molti hanno espresso il proprio dissenso. La raccolta delle firme è partita all'indomani dell'infuocata direzione del partito in cui la divisione in fazioni sul referendum è apparsa chiara. Soprattutto dopo la bocciatura a larga maggioranza dell'ordine del giorno Speranza, sottoscritto anche dai bersaniani di Gianni Cuperlo, che avrebbe dato pieno diritto di cittadinanza alle ragioni del «No» all'interno del nazareno. Nelle parole del vicesegretario Lorenzo Guerini era sintetizzata la linea politica. «In questo partito non si espelle chi vota No al referendum costituzionale, ma non può prestarsi a interpretazioni errate per cui entrambe queste posizioni hanno uguale dignità politica», aveva detto sottolineando che «il Sì e il No non sono sullo stesso piano».
Anche se il metodo utilizzato non è cristallino, la vicenda conferma la volontà renziana di rovesciare come un guanto il partito sin dalle sue fondamenta: o con lui o contro il Pd, tertium non datur. Certo, in un simile contesto risalta ancor di più l'ambiguità della linea di Pier Luigi Bersani, sempre critico sulle scelte e sui modi del premier-segretario, ma senza mai arrivare al punto di rottura, senza mai innescare mai l'esplosione.
Il silenzio del capogruppo del Pd al Senato, Luigi Zanda, è emblematico: il presidente dei senatori piddini non è certo un renziano e avrebbe potuto spendersi in nome della democrazia interna, ma non l'ha fatto. La verità è che Renzi ha buon gioco con i suoi avversari (o presunti tali, a sentir Massimo D'Alema): basta adombrare la possibilità di una modifica dell'Italicum e passa tutto.
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