Nell'Europa orientale, lungo la faglia che divide l'Unione Europea da ciò che resta dell'impero russo, ribollono tensioni che fanno temere per le sorti di una pace che siamo, forse, troppo abituati a dare per scontata. Da settimane, ormai, il confine che separa la Polonia (e in misura minore, anche la Lituania) dalla Bielorussia del dittatore Aleksandr Lukashenko vassallo di Mosca è epicentro di una crisi umanitaria provocata ad arte da quest'ultimo per vendicarsi del sostegno concesso da Varsavia e Vilnius all'opposizione in esilio al suo regime, destabilizzare l'Ue e, al tempo stesso, cercare di ottenere attraverso lo sperato cedimento di Bruxelles e di Berlino un successo d'immagine che rafforzi quel regime e magari faccia dimenticare ai bielorussi (ma anche ai russi in tutti i sensi alle loro spalle) miserie e difficoltà della loro situazione attuale.
Lungo questa frontiera gelida ma infiammata non si ammassano solo circa duemila disgraziati curdi e iracheni incoraggiati da Lukashenko a sfondare il muro (per ora solo virtuale, ma presto anche concreto) polacco, ma anche decine di migliaia di militari da ambo le parti, con ampio sfoggio di minacciose retoriche nazionalistiche.
Nel frattempo, un altro Paese collocato tra Occidente e Russia, l'Ucraina del filoccidentale presidente Volodymyr Zelensky, sta diventando oggetto di tensioni più militari che politiche. Vladimir Putin, che già negli anni scorsi ha strappato con la forza porzioni del territorio ucraino come la Crimea (annessa alla Federazione russa nel 2014 dopo un blitz militare malamente mascherato e un referendum illegale) e parte del Donbass, ha fatto ammassare centomila uomini alle frontiere di Kiev, suscitando il vivo allarme non solo degli ucraini, ma di diverse cancellerie occidentali. La Russia si starebbe accingendo denunciano queste fonti a un'incredibile guerra europea che potrebbe avere come obiettivo l'annessione di buona parte dell'Ucraina o addirittura la cancellazione di uno Stato sovrano che Putin non ha mai fatto mistero di considerare indegno di esistere.
Il Military Times pubblica una mappa che mostra come la Russia sarebbe pronta a scatenare entro gennaio un'invasione simultanea da Est, Nord e Sud, con spietati bombardamenti d'artiglieria e raid aerei, oltre che assaltando con mezzi anfibi i porti ucraini di Mariupol e di Odessa. Da Mosca negano tutto, parlano di «isteria montata ad arte negli Stati Uniti da chi manda oltreoceano le proprie armate e critica movimenti insoliti nel nostro stesso territorio». I vertici militari ucraini e americani ammettono (lo ha fatto lo stesso segretario alla Difesa Usa, Lloyd Austin) di non sapere esattamente cosa Putin intenda fare: forse vuole il blitz a sorpresa, forse «solo» far capire agli americani e ai loro alleati che con lui non si deve scherzare. Nel dubbio, Washington e Londra aumentano le loro forniture di armi a Kiev.
In questo quadro teso, ieri il nostro premier Mario Draghi, una delle voci oggi più autorevoli in Europa, ha telefonato a Putin. E non si è limitato a parlare delle crisi bielorussa e ucraina: ha messo sul tavolo anche la questione delicatissima delle forniture energetiche, visto che il gas russo che ampiamente importiamo transita dalla Bielorussia e Lukashenko minaccia di stringere i rubinetti.
Neanche il premier nazionalista ungherese Viktor Orbán ha perso tempo: in una lettera inviata alla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, chiede che alla situazione eccezionale ai confini orientali dell'Ue si risponda con misure speciali. In altre parole, chiede nuove norme europee in tema di immigrazione e batte cassa per costruire muri a Oriente.
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