La Gran Bretagna scopre il suo «Weinstein», il molestatore sessuale seriale, miliardario e potente, re dello shopping invece che del cinema, coperto da un muro di omertà che solo ieri è stato abbattuto, aprendo un dibattito politico e giuridico sul diritto alla privacy, l'interesse pubblico a essere informati e su quegli accordi di riservatezza di cui molti big si sono serviti finora, dallo stesso Harvey Weinstein a Donald Trump a Cristiano Ronaldo, per evitare che gli scandali venissero a galla. Philip Green, 66 anni, è l'uomo d'affari e presidente del Gruppo Arcadia, proprietario dei più noti grandi magazzini di moda e vendita al dettaglio del Regno Unito (Miss Selfridge, TopShop, Dorothy Perkins e Topman) identificato come il molestatore che per anni ha usato il suo potere ai danni di dipendenti donne, abusate sessualmente o discriminate per motivazioni razziali.
A fare il nome di Green, in Parlamento, è stato il laburista Peter Hain, ex leader della Camera dei Comuni e oggi membro della Camera dei Lord, dopo giorni di polemiche e accuse scatenate dalla decisione di tre giudici della Corte d'Appello britannica, che con una sentenza emessa martedì, hanno ribaltato un pronunciamento di primo grado e intimato il quotidiano The Telegraph di non pubblicare le generalità del miliardario al centro dell'inchiesta svolta per otto mesi dal giornale e a non identificare nemmeno l'azienda per cui lavora. Lord Hain ha deciso di andare contro la decisione dei magistrati e di scoperchiare il vaso di Pandora che i giudici d'appello hanno stabilito dovesse rimanere chiuso, in nome del diritto alla riservatezza, dopo che le parti - molestatore e vittime - si erano accordate dietro pagamento di «somme consistenti» (vietato anche pubblicare le cifre). «Lo sento come un dovere» ha detto il parlamentare, rispondendo alle pressioni del movimento #metoo inglese, che scalpitava per conoscere il protagonista dell'inchiesta.
Perché del Weinstein inglese, nel frattempo, nonostante la decisione della corte d'Appello, il Telegraph ha deciso di scrivere comunque, riferendo di aver raccolto le testimonianze di almeno 24 dipendenti molestate. Il giornale ha voluto lanciare una campagna in nome della libertà di stampa, sollevando questioni cruciali: l'interesse pubblico della vicenda, della quale gli inglesi hanno diritto di sapere e conoscere più dettagli possibili, l'interesse dei dipendenti dell'azienda, che devono potersi attrezzare nel caso gli abusi si ripetessero, e infine l'interesse dei propri lettori, perché «noi non abbiamo siglato nessuno accordo con Philip Green».
Lo scandalo si è trasformato in breve in un caso di scuola. Al centro della questione ci sono i non-disclosure agreements (Nda), gli «accordi di non divulgazione», detti anche «accordi di segretezza» o «di confidenzialità» nati per proteggere i segreti aziendali ma usati ormai sempre più spesso - parole del Comitato parlamentare e del movimento #metoo - «da alcuni datori di lavoro e avvocati per silenziare le vittime di abusi sessuali». Negli Usa se ne sono serviti il presidente Trump e il campione della Juventus Ronaldo per la presunta violenza sessuale avvenuta a Las Vegas. Ma negli Stati Uniti nessun bavaglio è stato messo alla stampa, come è avvenuto invece in Gran Bretagna, dopo che il miliardario, venuto a conoscenza dell'inchiesta, si è rivolto ai magistrati per ottenere il silenzio del quotidiano.
Sulla questione è intervenuta anche la premier Theresa May.
«Gli accordi di non divulgazione non possono fermare le denunce. Ed è chiaro che alcuni datori di lavoro li stanno usando in maniera non etica». Il governo lavorerà per rendere «assolutamente esplicito» che gli accordi non valgono in caso di aggressioni sessuali di natura criminale.
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