La lotta delle donne afghane "Ora chiamateci per nome"

Per vergogna, gli uomini usano altri appellativi in pubblico. E su Twitter scatta la campagna per i diritti

La lotta delle donne afghane "Ora chiamateci per nome"

Qual è la prima cosa che ci rende individui, quella cosa che ci identifica, quasi univocamente, che delinea il nostro essere vivi in questo mondo, che ci offre un'identità riconoscibile, che ci rende persone con dei diritti e con dei doveri? È il nostro nome. Ma in Afghanistan molte donne non hanno diritto a possedere un'identità, a partire proprio dal nome di persona. Where is my name, dov'è il mio nome? Questa non è solo una domanda: è molto di più. L'hashtag #wherismyname è stato creato per sensibilizzare l'opinione pubblica davanti a un problema molto diffuso nella società afghana e per spingere le donne a lottare per il loro nome, il primo dei loro diritti. Lo spiega Thamina Arian, attivista per i diritti delle donne per il Women Committee, laureata in Diplomacy alla Kardan University di Kabul: «Dopo anni di guerra e le sofferenze che questa guerra ha portato con sé, le donne afghane devono fronteggiare un'altra battaglia: quella per il loro diritto ad essere riconosciute». Molte donne afghane, racconta Thamina, nel loro paese non vengono chiamate per nome e lottano per averne uno. Gli uomini non chiamano le loro donne per nome in pubblico perché si vergognano. Quindi, usano degli epiteti. La moglie diventa moglie di, figlia di, sorella di, la mia puttanella, la mia gallina, la mia capra, la madre dei miei figli. Thamina Arian, una delle principali sostenitrici dell'hashtag #Whereismyname, dice che le donne «sono anonime anche al momento della sepoltura, le loro tombe non portano il loro nome. È come se non fossero mai esistite».

Thamina, come è nata questa battaglia al femminile e da che necessità è nato l'hashtag #whereismyname?

«Credo fortemente nei diritti umani e nella legittimazione dei diritti delle donne e delle ragazze afghane, sono membro attivo della campagna social #whereismyname. La violenza sulle donne si sta trasformando in un fenomeno diffuso in tutto il mondo, specialmente nei paesi del terzo mondo o nei paesi in cui ci sono state delle guerre, paesi che sono sfortunatamente a maggioranza musulmana. L'Afghanistan non è un'eccezione. Dopo molti anni di lotta per portare giustizia e parità di diritti alle donne, non vediamo ancora un cambiamento degno di nota nelle condizioni femminili. Negli anni scorsi, anni in cui abbiamo combattuto per la parità dei diritti e per eliminare la violenza contro le donne, possiamo finalmente trovare uno dei principali fattori di violenza, che è allo stesso tempo sia un fattore, sia una ragione che genera altri fattori di violenza: il nome delle donne, considerato come un tabù dagli uomini e dalla società».

In che modo gli uomini si riferiscono alle donne secondo questa tendenza patriarcale?

«Nella società patriarcale dell'Afghanistan, le donne sono spesso identificate pubblicamente con i nomi dei loro parenti maschi. La loro identità deriva dal rapporto con gli uomini, che sono visti come i proprietari».

Molte donne stanno trovando il coraggio e postano delle loro foto con l'hashtag #wherismyname. Come state combattendo per i diritti negati?

«Io e un gruppo di giovani donne stiamo cercando di sensibilizzare attraverso questa campagna per sradicare molti tabù di vecchia data e aiutare le donne afghane a reclamare le loro identità. Crediamo che ridare indietro alle donne il loro nome sia il primo passo importante per incoraggiarle ad affermare i propri diritti in una società dove la violenza e l'abuso contro le donne rimane uno dei problemi maggiori. Dato che il nostro obiettivo principale era quello di cercare di diffondere la consapevolezza sul diritto all'identità, questo fortunatamente ha avuto una massiccia copertura mediatica da parte di media nazionali e internazionali».

Qual è l'obiettivo della campagna?

«Che le donne capiscano il loro contributo alla

comunità (in tutti gli aspetti sociali, politici, culturali, economici), che le donne possano riconoscere il loro ruolo nel sistema governativo e che possano avere un ruolo ben definito all'interno dei processi decisionali».

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