San Paolo Stuprata ad 11 anni dal compagno 65enne della nonna e costretta a partorire con un cesareo. La storia di Lucia -il nome è fittizio- sta facendo in queste ore il giro del mondo per la doppia brutalità. Lo stupro prima, l'aborto negato poi con un cesareo d'urgenza. Il fatto è avvenuto in Argentina, a Buyurracú, nella provincia di Tucumán. La bambina era stata affidata alle cure della nonna dal 2015 dopo che due sorelle più grandi erano state violentate dal compagno, stavolta della madre. Una nemesi familiare che si è ripetuta anche con la figlia più piccola. La ragazzina aveva scoperto di essere rimasta incinta lo scorso 28 gennaio quando dolori fortissimi all'intestino l'avevano costretta a correre in ospedale. Era alla 19ma settimana.
In Argentina l'aborto è ad oggi illegale e l'ultimo tentativo, con il governo Macri, di modificare la legge del 1921 che lo regola è stato fatto lo scorso agosto ma con scarso successo. Nel paese di Papa Francesco il Senato ha detto, infatti, no alla sua legalizzazione, nonostante una marcia verde di migliaia di donne che chiedevano un'onda di modernizzazione. Chi abortisce finisce, così, oggi in carcere.
Ma il caso di Lucia è ancora più drammatico. Nonostante le restrizioni legali, infatti, in Argentina l'aborto è consentito dalla legge quando è a rischio la vita della donna e quando la gravidanza sia frutto di uno stupro, come era il caso appunto della ragazzina che, infatti, insieme alla madre, aveva avanzato una richiesta di aborto presso le istituzioni sanitarie di Tucumán. Si tratta del cosiddetto protocollo ILE, Interrupción Legal del Embarazo (interruzione legale della gravidanza), introdotto per la prima volta in Argentina nel 2015 sulla base di una sentenza del 2012 della Corte Suprema sull'aborto per stupro. Purtroppo non tutte le province aderiscono al protocollo, come è il caso appunto di Tucumán che si è proclamata «pro-vita» con in testa il governatore Juan Manzur che il 5 agosto scorso ha guidato una grande manifestazione contro l'aborto nelle vie di San Miguel de Tucumán.
E così le autorità sanitarie hanno ritardato la procedura fino ad iniettarle dei corticosteroidi per far crescere il feto, cercando di convincerla ad arrivare alla fine della gravidanza. L'11 febbraio la ragazzina ha tentato il suicidio. Fino a martedì scorso quando, giunta ormai alla 23ma settimana, invece di abortire le è stato fatto un cesareo d'urgenza da due medici privati, non obiettori che hanno ritenuto ormai troppo rischioso procedere all'aborto. Uno dei due, la dottoressa Cecilia Ousset ha detto: «Per ragioni elettorali (il governatore si ricandida a giugno) le autorità hanno impedito l'interruzione legale della gravidanza». Il bambino alla fine è nato ma pesa appena 660 grammi e secondo i medici non sopravviverà. Lucia fisicamente sta bene ma l'esperienza che ha vissuto sarà davvero difficile da metabolizzare. Con lei si sono schierate migliaia di donne argentine a partire da quelle del movimento «Ni Una Menos» che lo scorso anno hanno guidato la campagna di legalizzazione dell'aborto. «Lo stato è responsabile della tortura di Lucia» hanno detto. Mariana Iglesias, la giornalista del Clarín tra le prime a dare la notizia ha sintetizzato nel titolo tutta l'essenza di questa tragedia: «Una bambina violentata e costretta ad essere madre contro la sua volontà. Medici che non rispettano la legge.
Un vescovo che rivela il nome della ragazzina. Funzionari che nascondono. Militanti pro-vita che si travestono da medici per entrare nell'ospedale». Per il ministro della Salute Adolfo Rubinstein «non si doveva arrivare a questo».
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