Luigi bugiardo: "Voto a giugno". Ma la strada è impraticabile

I tempi sono ormai scaduti e il Colle è contrario a una simile eventualità

Luigi bugiardo: "Voto a giugno". Ma la strada è impraticabile

La terra trema sotto i piedi di Luigi Di Maio. E quando il gioco si fa duro, i pentastellati preferiscono scappare. «Bisogna tornare al voto a giugno», invoca il leader M5s. Una bugia bella e buona. Perché, anche volendo accelerare, la finestra temporale per votare a giugno ha le ore praticamente contate: si chiude mercoledì 9 maggio. Non impossibile, ma quasi. Seguendo altre interpretazioni della legge poi, con l'introduzione del voto all'estero i giorni necessari diventano non meno di 60: già oggi quindi non ci sarebbero più i tempi tecnici per tornare al voto prima dell'estate. Ma nel mondo a 5 Stelle si può promettere tutto, anche l'irrealizzabile. Dopo aver pontificato per settimane col petto gonfio e aver sventolato in modo ossessivo il veto anti Berlusconi, Di Maio vuole battere in ritirata. Prima ha giocato con le sorti del paese e ora vuole portarsi via il pallone riesumando la vecchia tiritera della legge elettorale-inciucio. Non pago, prova a tirare ancora una volta per la giacchetta Salvini: «Andiamo insieme a chiedere di andare a votare e facciamo finalmente questo secondo turno a giugno. Visto che i partiti hanno paura del cambiamento, allora facciamo scegliere ai cittadini tra rivoluzione e restaurazione».

La paura, appunto. Dopo la slavina di voti raccolti dal candidato del centrodestra Fedriga, il timore di finire sotto una valanga prende quota. È come quel giocatore di poker a cui il fato non sorride più. E da vincente passa a sentirsi un potenziale perdente. La stessa sensazione che avrà provato Beppe Grillo nell'aprile del 2013 quando, girando in camper per sostenere il candidato alla presidenza Saverio Galluccio alle scorse regionali, profetizzava: «Il Friuli sarà la prima regione a Cinque stelle». Profezia schiantatasi con la realtà dei numeri: il grillino si piazzò terzo, con il 19,2% perdendo otto punti percentuali e quasi centomila voti rispetto all'exploit delle politiche di febbraio e la lista prese il 13,7% con 54.900 voti. Una Caporetto pentastellata. Grillo si affrettò a minimizzare il flop, così come ha fatto ieri Di Maio. Il copione si è ripetuto nello stesso proscenio elettorale: è la maledizione del Friuli Venezia Giulia. Anche stavolta le aspettative erano alte. «Il consenso attorno al M5s è cresciuto anche in questa regione», dichiarava alla vigilia Di Maio sostenendo che la partita fosse aperta. Ma il M5s è dovuto tornare subito alla realtà. Così come Grillo è tornato a negare e a dare la colpa ai soliti partiti «parassiti» e all'infausta legge elettorale. «Come prendere una batosta storica e continuare a fare le maestrine sfruttando l'energia di chi ti ha appena sconfitto», ha scritto Grillo, dimenticando che, ultimamente, le batoste non hanno risparmiato il M5s. Dopo le vittorie di Roma, Livorno e Torino - città e amministrazioni che non versano in condizioni ottimali per usare un eufemismo - i grillini hanno subito cocenti delusioni sia in Molise sia in Friuli Venezia Giulia. Le moine e lo stallo hanno determinato un calo di consensi e i pentastellati, che si sono presentati come dei mazzieri, ora si ritrovano dei meri giocatori con due di picche in mano.

È l'ennesima maledizione pentastellata condita dalla paura di perdere pur partendo paradossalmente dalla possibilità di vincere. Ma la politica è l'arte della mediazione e a un attaccante a cui non passano la palla non resta appunto che portarsi via il pallone e chiedere di rigiocare la partita.

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