Luisa, 94 anni e i detenuti come figli

A Gorgona tra gli 86 galeotti del carcere a cielo aperto: "Perché dovrei andarmene?"

Luisa, 94 anni e i detenuti come figli

Gorgona (Livorno). È l'unica che potrebbe fare avanti e indietro dall'isola perché i suoi vicini sono carcerati. E invece la signora Luisa Citti di attraccare sulla terraferma non ha nessuna voglia. A 94 anni vive così, nella sua bella casetta aperta a tutti, con i detenuti della Gorgona a farle compagnia, il carcere modello in effetti, 86 prigionieri in mezzo al mare, ventuno miglia di separazione. Potrebbe far paura tutto questo spazio, «Ma io non mi muovo da qui», ti sorride e ti dice di vivere nel posto migliore del mondo e che si sentirebbe estranea in ogni altra parte. «Io sono una privilegiata. I figli? Si certo, mi chiedono di continuo di andare da loro a Firenze, ma io rispondo sempre allo stesso modo: venite voi qui». E quando le fai notare che forse sarebbe più facile stare in un centro abitato con servizi essenziali come il medico, il supermercato, un bar ad esempio, lei da dietro i suoi occhiali ti dice «ma perché dovrei lasciare tutto questo? Qui ho tutto quello che mi serve, compreso i miei libri, i gialli che sono la mia passione». Non vuole neppure sentir parlare di nostalgia o solitudine: «Sono passati tredici anni dall'ultima volta che ho preso il traghetto, non potevo dire di no, era un'occasione importante, si sposava mio nipote».

In realtà vivere qui non è facile, negli anni quest'isola si è spopolata, «una volta c'erano famiglie, bambini, le scuole con una ventina di alunni». Oggi le case accanto alla sua sono vuote, non c'è più niente se non il carcere e l'inverno dev'essere lungo e monotono. Ma lei la battaglia non la fa per sé ma perché ci tiene davvero che l'isola torni a vivere. «Se almeno riaprisse la scuola, le famiglie delle guardie potrebbero venire a stare qui». Intanto, ci sono i nipoti che la vengono a trovare regolarmente, e poi ci sono i detenuti che la proteggono come angeli custodi. «Sono diventata la zia di tutti, mi vogliono bene e per me sono tutti nipoti». La porta di casa è sempre aperta e i pregiudizi e la paura sono stati abbattuti con i fatti; il passato resta alle spalle, gli errori si pagano e qui tutti scontano la loro pena. Poi però c'è anche il coraggio di dire la parola futuro: la rieducazione, il reinserimento nella società. Parole già sentite milioni di volte, ma qui lo vedi e lo vivi. «Questi muri di casa me li hanno ridipinti loro, e gli archi li hanno fatti rosa, non sono belli?». Ci hanno messo mesi i muratori-galeotti per ristrutturare la casa di Luisa. «Alla mia età mi sono dovuta trasferire qui accanto - sorride - loro hanno lavorato duramente, prima l'esterno, poi la ristrutturazione interna. Sistemata come nuova. E poi mi hanno costruito due librerie».

Praticamente un'adozione. «Non mi serve un supermercato, quando mi manca qualcosa chiamo su allo spaccio della prigione e uno di loro mi porta la spesa». Ecco cosa vuol dire carcere modello, una comunità che funziona perché ognuno fa la propria parte, come l'acciottolato che dal porticciolo porta in alto al borgo, risistemato come le case che fino a pochi anni fa erano decadenti e scrostate. Merito del direttore, Carlo Mazzerbo, che da sempre ha capito che quest'isola doveva avere il suo lato positivo, incarnare un sistema dall'avanguardia. «Si cerca di costruire una comunità dove la sicurezza si fa conoscendosi, un patto tra uomini».

E ce l'ha fatta; la chiamano l'isola dei diritti, meta ambita tra le carceri, dove le celle si aprono solo la notte per dormire, e per il resto la giornata è fatta di vita, con tanto lavoro nei campi o con gli animali, l'agricoltura e il pregiato vino Frescobaldi. C'è un campo da calcio, per invogliare allo sport, e un laboratorio di teatro che è partito due anni fa. Ieri, al Convegno organizzato dai penalisti di Livorno - presenti tra gli altri anche l'onorevole Verini, il presidente dell'Unione delle Camere Penali Caiazza, il numero uno del Dap Petralia e la Presidente di nessuno tocchi Caino, Rita Bernardini- hanno messo in scena un lavoro emozionante che l'anno scorso ha vinto anche un premio, Ulisse o i colori della mente di Gianfranco Pedullà, perché ritornare a Itaca significa - dopo aver pagato per i propri errori - rientrare dalle famiglie, dalle mogli e dai figli che aspettano, trovare finalmente un posto utile nella società, perché in fondo la felicità è poi questa. Come quella di Luisa che sa di essere nel suo luogo, al suo posto. «Questo gattino me lo hanno regalato loro». Salta sul tavolo della cucina e zampetta su un grande libro bianco. «Questo è il libro che mi ha portato Andrea Bocelli, da allora mi telefona, mi fa gli auguri di Natale». Intanto sta calando la sera.

Il traghetto riparte, è l'unica corsa. A bordo ci sono anche i familiari dei detenuti. Si interroga il cielo perché il vento non è sempre gentile e se si alza il libeccio si resta per giorni senza collegamento. Ma a Luisa tutto questo non spaventa.

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