«La guerra-lampo scatenata contro il nostro Paese da potenze straniere è stata respinta, controlliamo la Bielorussia». Dallo scorso agosto, ogni domenica nonostante arresti di massa e persecuzioni, l'opposizione negata bielorussa si presenta in piazza per contestare la sua presunta vittoria elettorale, ma per Aleksandr Lukashenko essa, semplicemente, non ha diritto ad esistere. Così ieri il presidente puntellato da Mosca ma non riconosciuto dall'Europa ha aperto la sessione dell'Assemblea Nazionale, 2700 persone scelte con cura perché non vi fosse tra loro una singola voce dissidente, e ha parlato come se Minsk fosse sulla Luna, dipingendo una realtà che esiste solo nella sua narrativa. Una realtà in cui si parla, tra l'altro, di fumose riforme costituzionali che dovrebbero offrire ai bielorussi una qualche apertura verso un futuro meno monolitico, con tanto di referendum confermativo entro il 2022. Ma un solo concetto è apparso chiaro tra tante promesse inutili: Lukashenko non intende farsi da parte, perché si considera perfettamente legittimato. Nessuna concessione, dunque, a chi non lo riconosce.
La Bielorussia, ha detto Lukashenko al suo uditorio, è l'unico Paese europeo veramente sovrano. Continuerà a discutere con i suoi alleati (cioè con Vladimir Putin che assicura la sopravvivenza del suo regime) le modalità di integrazione della Bielorussia con la Russia, che potranno ha detto essere ulteriormente approfondite, ma non fino al punto in cui il suo Paese debba rinunciare a una nominale indipendenza. Proseguirà anche nei suoi rapporti con i vicini occidentali, ma garantendo la sopravvivenza dello Stato, ossia del suo regime: parole chiare rivolte alle vicine Lituania e Polonia, che ospitano i vertici dell'opposizione in esilio. Parlando delle proteste contro di lui, che anche ieri hanno avuto luogo, seguite dai consueti pestaggi ed arresti, davanti al palazzo dove si è riunita l'Assemblea, le ha sminuite come qualcosa di organizzato a tavolino in Occidente, «non tanto una rivoluzione colorata, quanto semmai una ribellione che comunque è fallita».
Lukashenko era consapevole di rivolgersi a quella parte della società bielorussa che lo sostiene perché gli deve tutto e ha cercato di rassicurarla sulla tenuta del regime. «Non sappiamo esattamente cosa vogliano alcune forze esterne a questo Paese ha scandito davanti al suo finto Parlamento ma sappiamo per certo che non si arrenderanno. Sono coinvolte forze molto potenti, dobbiamo resistere a ogni costo. Lo Stato resisterà, siatene certi: noi terremo duro». Poi il dittatore di Minsk è passato a lodare il rapporto privilegiato con Mosca che «è e resterà anche in futuro il nostro principale alleato». Putin è in realtà l'unico, ma ha una posizione di «fratello maggiore» assolutamente preminente. E dopo aver puntellato il regime bielorusso mandando perfino a Minsk suoi giornalisti per rimpiazzare quelli della tv di Stato che si erano licenziati per protesta dopo la truffa elettorale dello scorso 9 agosto, sembra ora pronto a passare all'incasso.
Tra il 22 e il 25 prossimi è prevista la visita di Lukashenko in Russia: a Sochi sul Mar Nero si parlerà di integrazione tra i due Stati e di prestiti. Putin pretende la prima, fino ad arrivare nelle sue intenzioni a un'annessione di fatto, per garantirsi una volta per sempre dal rischio di una fuga dall'orbita russa di una ipotetica Bielorussia democratica.
I secondi dovranno invece servire a realizzare una centrale nucleare e hanno tutta l'aria di funzionare come arma di ricatto energetico: ancora una volta, a Sochi, Lukashenko cercherà in qualche modo di restare a galla.
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