Spiegare in poche righe l'umorismo ebraico è come voler dipanare due fili di spago intrecciati in pochi secondi: non si può. Quello che si più fare, invece, è dare la misura di tale intreccio. Su tutti lo spiega una fulminante battuta ripresa dai uno dei personaggi di Train de Vie (1998), un film di Radu Mihaileinu. Per sfuggire allo sterminio nazista, un intero villaggio di ebrei decide di mettersi in viaggio su un treno e di scappare in Palestina: poveretti di uno shtetl che si fingono Ss per attraversare l'Europa senza problemi. C'è però il problema della lingua: yiddish e tedesco sono molto simili ma suonano anche molto diversi, si preoccupa Mordechai. Gli risponde l'arguto Schmechl: «Per parlare perfettamente il tedesco e perdere l'accento yiddish, basta togliere l'umorismo». Un altro esercizio utile è andare per categorie negative: l'umorismo ebraico coltivato dalla cultura ashkenazita non è farsesco e non si fa beffe di nessuno in particolare, mai di un aspetto fisico. Alla berlina sono messi invece i comportamenti umani, in genere di altri ebrei, principale oggetto delle storielle dolceamare. La risata ebraica è poi irriverente e democratica, ed eleva spesso l'ultimo shnorrer (accattone) del villaggio a fustigatore di vanagloriosi, prepotenti o superbi, siano questi il ricco commerciante ostentatore o il temuto zar di tutte le Russie. Elaborato anche da decenni di psicanalisi sui lettini di Sigmund Freud, Alfred Adler e Carl G. Jung (solo per citare tre pensatori ebrei che si sono interrogati anche sul valore terapeutico della risata frutto di una riflessione arguta), lo humour ebraico ha finito per conquistare tanta letteratura nordamericana, Broadway, Hollywood e oggi Netflix.
Parte integrante della cultura ebraica, lo humour è anche un'arma per difendersi dalle persecuzioni, come diceva quello per cui tutti i guai del mondo sono colpa dei ciclisti e degli ebrei. «E perché dei ciclisti?», osservava l'altro. Risposta: «E perché degli ebrei?».
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