Prima di ogni miracolo i Vangeli notano che Gesù provava compassione. Compassione per i malati. Dobbiamo sentire la stessa compassione, ripeteva Jean Vanier, il fondatore de L'Arche, morto di cancro a novant'anni. Il cristianesimo è anzitutto questo: il curvarsi sui dolori e le sofferenze degli uomini, specialmente gli ultimi e i reietti, perché tutti siamo fatti a immagine di Dio e a tutti la Croce ha offerto la salvezza. Questa attenzione al dettaglio quotidiano è il genio di una storia secolare: basta pensare al Cottolengo e ai santi sociali torinesi dell'Ottocento o a Don Gnocchi che sul dolore costruì una mistica e riscattò nell'Italia del primo dopoguerra migliaia di mutilatini, forse l'ultimo girone nella scala della società.
Jean Vanier rielabora le stesse intuizioni. E le sue scelte sono, se possibile, ancora più straordinarie perché il suo profilo è quello di un membro dell'alta società canadese, anche se lui viene al mondo nel 1928 a Ginevra. I genitori sono diplomatici, il giovane diventa ufficiale della marina, prima britannica, poi canadese. Ma una carriera brillante non lo appaga e nemmeno l'insegnamento all'università lo riempie. La sua vocazione si delinea nel tempo ed è uno squarcio sulla realtà delle disabilità. Di più, sul mondo tenebroso dell'handicap mentale. L'Arche nasce nel 1964, nel 1971 Vanier è fra i fondatori del movimento Fede e Luce. L'Arche parte da una scommessa vertiginosa, a Trosly in Francia. Vanier con l'aiuto di un padre domenicano propone a due persone con disabilità mentale, Raphael Simmi e Philippe Seux, di andare a vivere insieme nello spirito del Vangelo. Oggi le comunità sparse ovunque sono più di 150. «Il ruolo dell'Arca - affermerà il fondatore nel 2015 dopo aver ricevuto il prestigioso Premio Templeton - è di annunciare la buona notizia ai poveri. A loro certo diciamo Dio ti ama, ma diciamo anche Io ti amo, tu sei importante per me. È accogliere in piccole case persone che hanno molto sofferto e rivelare loro che sono qualcuno. Amare qualcuno è rivelargli che ha un valore».
È quel che ha fatto Madre Teresa aprendo i suoi lebbrosari nell'India dei disgraziati più disgraziati, quelli scansati da tutti. È quel che distingueva il grande filosofo francese Emmanuel Mounier: quando invitava gli accademici di Francia a casa sua, metteva sempre la figlia Francoise che altri avrebbero nascosto a capotavola. Non per una forma morbosa di compiacimento, ma perché il cristianesimo insegna un'umanità più grande, dilatata, sorprendente. Che fa a pezzi misure, ipocrisie, fastidi. «Il messaggio del Vangelo - spiega sempre Vanier - è diventare uomini e donne di compassione». Attenzione: la compassione non è un sentimento zuccheroso per anime pie; no, è una profonda empatia per il prossimo. Un'empatia che, appunto, fa miracoli. «L'aspetto particolare a L'Arche, come a Fede e Luce - insiste Vanier - è che le persone con handicap sono persone super. Non hanno sviluppato la mente, ma hanno cuore». Un discorso che potrebbe apparire velleitario se non fosse che l'imponente rete assistenziale messa in piedi dimostra il contrario: la consapevolezza della fede ha fatto vincere una sfida temeraria. Abbattendo pregiudizi e capovolgendo l'ideologia, anche quella religiosa, di chi riteneva la malattia una punizione di Dio.
Anzi, si scandalizzava per questo: la scintilla di Fede e Luce è il rifiuto incontrato da due ragazzi francesi con disturbi mentali: la loro diocesi li aveva umiliati escludendoli da un pellegrinaggio a Lourdes. Ci penserà Jean Vanier a promuoverne uno per loro e per tutti quelli come loro.
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