È una strana crisi, quella minacciata da Matteo Renzi ogni due per tre. La prima crisi di governo senza partiti di governo. Dove a fronteggiarsi sono un partitino che secondo i sondaggi vale intorno al 3% e un presidente del Consiglio apolide, non iscritto a nessuna delle formazioni politiche che lo sostengono. È più un duello rusticano tra Renzi e Giuseppe Conte a colpi di conferenze stampa che una vera crisi politica. Infatti il M5s e il Pd, i due azionisti di maggioranza del patto giallorosso, rimangono alla finestra. Non si vedono. E se compaiono lo fanno in ordine sparso. Consegnandoci l'immagine di due forze spaccate, sempre pronte alla resa dei conti interna. Prendiamo il M5s. I grillini sono reduci dagli Stati Generali e si apprestano a scegliere i componenti del nuovo organo collegiale che guiderà il Movimento. Tra i pentastellati non ha mai smesso di tenere banco il dualismo tra Di Maio e il premier Conte, indicato dai Cinque Stelle, eppure mai entrato formalmente a far parte del M5s. Ed è in questa ottica di scontro latente, a bassa intensità, che vanno lette le tensioni di governo attraverso la lente del grillismo.
La fotografia della truppa parlamentare è quanto di più lontano ci possa essere dalla compattezza monolitica degli esordi. Abbondano i battitori liberi e proliferano le dissidenze di ogni tipo. Ma anche nei gruppi di Camera e Senato la faglia divisiva più importante è quella tra «contiani» e «dimaiani». Una divisione che, potenzialmente, potrebbe far implodere il M5s. Chi prova a tenere la conta del pallottoliere dei parlamentari ci dice che «Luigi non è più amato come un tempo, certo ha ripreso quota, ma dispone solo del suo zoccolo duro, mentre dall'altro lato Conte ha uno zoccolo più duro e forse più grande». Ed ecco l'ipotesi paventata ieri dal senatore Vito Petrocelli sulle colonne di questo giornale. Scenario che prevede una parte del M5s pronta a mettere insieme un'altra maggioranza e ingoiare il Mes, a patto che Di Maio diventi il nuovo premier. Uno schema che, secondo molti grillini, dilanierebbe il Movimento, dando una spinta alla creazione di un «partito contiano» in rampa di lancio per correre alle elezioni. Scissione servita. D'altronde a Palazzo Chigi, come riportato martedì dal Foglio, ormai parlano di Conte come del «nostro Kennedy». C'è da dire però che la tattica di Renzi e le presunte ambizioni di Di Maio hanno dalla loro l'istinto di sopravvivenza di tanti parlamentari. Una crisi che tenga comunque in vita la legislatura permetterebbe a molti, soprattutto nel M5s, di conservare il seggio evitando il salto nel buio delle urne. Un voto che dimezzerebbe gli eletti grillini, lasciando a casa la maggior parte degli attuali «portavoce».
E poi c'è il Pd. L'altro spettatore interessato di questa mezza crisi di Capodanno. Con il segretario Nicola Zingaretti che da un lato manda pizzini a Renzi sul «no agli avventurismi», mentre dall'altro lato chiede al premier «un rilancio dell'azione di governo del quale il progetto di Recovery Fund è parte fondamentale». Anche a sinistra la spaccatura è plastica. Con Dario Franceschini e il teorico giallorosso Goffredo Bettini che non vedono leadership alternative a quella di Conte e, di conseguenza, non mettono in conto di percorrere strade diverse dalle elezioni anticipate.
Invece i parlamentari di rito ex renziano, alcuni esponenti locali come Stefano Bonaccini e Giorgio Gori e altre correnti dem come «i giovani Turchi» del deputato Matteo
Orfini, non vogliono sacrificare il partito sull'altare del «contismo» e di un'alleanza organica con il M5s. Entrambi troppo divisi per parlare con una sola voce, né i gialli né i rossi decideranno le sorti dei giallorossi.
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