«Questa per il Pd è l'ultima chance», aveva avvertito Enrico Letta, appena tornato dall'esilio parigino per accettare l'onore e l'onere di guidare un partito sull'orlo dell'implosione.
Per qualche giorno lo hanno preso sul serio, votandolo all'unanimità, promettendo di superare l'eterna guerriglia tra correnti, plaudendo le sue prime decisioni, come la scelta dei due vicesegretari Irene Tinagli e Peppe Provenzano. Ma la luna di miele è finita presto, e la forzatura lettiana sui capigruppo ha rimesso in moto tutti i riflessi pavloviani interni. Al Senato (dove l'ex renziano Andrea Marcucci era il vero obiettivo della richiesta di ricambio fatta in nome della parità di genere) la questione si è chiusa rapidamente con l'elezione unanime di Simona Malpezzi. Alla Camera il match Serracchiani-Madia non si concluderà prima di martedì e lo scontro, a colpi di accuse di cooptazione e correntismo, sta dilaniando il gruppo parlamentare.
Certo, Letta cerca di tenersi fuori dalle ultime risse, e sembra intenzionato ad andare avanti senza farsi frenare troppo, districandosi con una certa consumata abilità tra gli equilibri sempre precari e burrascosi di un partito che conosce come le sue tasche, ed è quindi ancora presto per dire che «l'ultima chance» sia destinata a venire bruciata. Ma quel Pd che ieri Repubblica definiva, con qualche enfasi, «la fabbrica del riformismo», continua ad essere una macchina inceppata dalle stesse, insuperate coazioni a ripetere. Lo stesso «amalgama mal riuscito» (secondo la vecchia definizione dalemiana) tra reduci del Pci e massimalisti di sinistra tentati dal populismo e ancora convinti di una propria incoercibile supremazia politica e morale, post-democristiani abilissimi nel navigare tra le contraddizioni altrui gestendo il potere effettivo e liberal-democratici convinti che il Pd debba essere davvero la «casa dei riformisti» ma vissuti come corpi estranei dalla pancia ex comunista. Basti vedere gli attacchi velenosi e stizziti (tipo: taci, che ti abbiamo eletto noi) che Irene Tinagli, appena nominata, ha ricevuto dagli zingarettiani per aver auspicato un centrosinistra «allargato» ai liberali e aver criticato un Pd «vittima di se stesso» e troppo intento «a guardarsi l'ombelico».
Ieri Marianna Madia ha ammorbidito i toni, dopo il suo j'accuse impetuoso contro il capogruppo uscente Graziano Delrio e le correnti che avrebbero «cooptato» Serracchiani stringendo un patto sulla sua candidatura, ma fa sapere di non essere intenzionata a ritirarsi dal match. Diverse compagne di partito sono intervenute per stemperare quella che rischiava di apparire come una rissa tra primedonne. «Proviamo ad azzerare i giochi correntizi maschili», è l'accorato appello di Susanna Cenni (corrente Cuperlo). «Ci sono», risponde Madia.
Ma in verità, dietro la diatriba tra le due protagoniste si cela uno scontro tutto di potere: su Serracchiani è stato chiuso un patto tra area Franceschini e Base riformista (i cosiddetti ex renziani, che otterranno il capogruppo vicario Piero De Luca), che finirebbe per emarginare dalla gestione del
gruppo parlamentare orlandiani e zingarettiani. Che dunque hanno puntato su Marianna Madia per cercare di incrinare il nuovo equilibrio. Come finirà si saprà martedì, anche se i numeri sono dalla parte di Debora Serracchiani.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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