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"Magari tornasse la Prima Repubblica, nessuno risponde più all'elettore"

L'ex ministro democristiano Paolo Cirino Pomicino: "Purtroppo non basta una legge proporzionale. E ci teniamo i cortigiani che devono tutto al capo"

"Magari tornasse la Prima Repubblica, nessuno risponde più all'elettore"

Roma - Onorevole Paolo Cirino Pomicino, ha sentito? Sta tornando la Prima Repubblica.

«Non dica sciocchezze».

Un sogno che si avvera.

«Purtroppo, sottolineo purtroppo, siamo molto lontani dal vero».

La Consulta parla chiaro.

«Guardi che la Prima Repubblica non è una legge elettorale».

Non lo era. Ora così sembra.

«Era l'insieme di culture politiche che rendevano coesi vari partiti. Che non erano personali».

Ce l'ha con i partiti del leader?

«Una sbornia bonapartista durata vent'anni».

Piccoli leader, grandi manie.

«Partiti personali nei quali il segretario pro tempore è padre padrone. Con la differenza che quando il leader serio, com'è stato per il mio amico Berlusconi, si dà luogo a un partito importante».

E senza?

«Si è dato impulso alla frantumazione e al nanismo politico. Con un'aggravante, valida anche per i partiti più grandi: la selezione di una classe dirigente cortigiana».

Fenomeno vero in ogni luogo e in ogni tempo, pare.

«Sicuro. Ma ancor più incoraggiato se c'è la totale separazione dell'eletto dall'elettore, perché l'eletto risponde soltanto al Capo, e deve tutto a lui. Invece il vero giudice deve sempre restare l'elettore».

Severa bocciatura del Parlamento che c'è.

«No, lo difendo. Anche se è stato politicamente immiserito. Perché il Parlamento è come la salute: ci si accorge quant'è importante quando non c'è più».

Dato a Cesare quel che è di Cesare, il popolo ha saputo difendere il Parlamento bicamerale nel momento del bisogno.

«C'è un Paese che è più saggio dei suoi governanti. Ne ha passate e viste di ogni colore ed è vaccinato».

A parole tutti vogliono votare subito.

«A me sembra propaganda al rialzo. Vorrei chiedere, specie ai partiti che hanno il 5 o il 12 per cento, ma correre alle urne per fare cosa?».

Comunque dipenderà tutto dal Pd, cioè da Renzi.

«Distinguerei. Se il Pd vuole davvero le urne deve avere il coraggio di sfiduciare il proprio governo. La Dc lo fece nell'87. È saggio ricordare che chi produce elezioni, dopo assai se ne duole».

Estate, autunno, 2018?

«Dodici mesi è il soffio del vento».

Troppi problemi da risolvere.

«Abbiamo il G7 a Taormina, l'economia che non va, i guai del terremoto, il dramma dei migranti... È così salvifico ricorrere alle urne?».

Non è che (anche) Renzi stia mirando a qualcosa di diverso?

«Non faccio fantapolitica. Mi limito a osservare che, se danno il tempo ai partiti di ritrovare un minimo di cultura politica e di identità, finalmente, dopo venti anni, la maggioranza parlamentare potrà essere anche la maggioranza del Paese».

Renzi parte dal 40 per cento.

«Il 40 per cento è una maggioranza in Parlamento, non nel Paese. Questo Paese irrequieto non si governa con il 40 per cento, figurarsi con meno. Pensi a un vero centrosinistra, che con una buona legge elettorale possa tornare a essere una soluzione praticabile. Il nostro rappresentava oltre il 60 per cento degli italiani. E questo è il bello del proporzionale».

Per anni l'hanno svillaneggiato.

«Dopo il '92-93 la coscienza collettiva ne ha fatto il capro espiatorio. Invece occorrerebbe capire che la legge elettorale è una macchina fotografica. La foto la puoi ritoccare, non stravolgere. Le distorsioni ti si ripercuotono contro».

Il maggioritario una truffa.

«Peggio, il distruttore di questo Paese. Ha fatto rinascere drammaticamente il trasformismo ottocentesco. Ha fatto sorgere una miriade di partitini a caccia ognuno di qualcosa, e ciascuno in grado di porre condizioni alle maggioranze. Così non ha garantito governabilità, e fatto smarrire ogni cultura politica».

Torneranno i partiti di una volta. Forse la Balena bianca.

«La Balena bianca tra trent'anni. Non credo neppure i partiti d'un tempo, ma una cultura di riferimento serve. La prima domanda è sapere chi sei: un socialista, un popolare, un liberale...».

Faccia lei, l'era è liquida.

«No, occorre. L'identità non deriva dal profilo programmatico, ma da un sentiment, riferimenti culturali saldi e condivisi. Continuo a credere che gli organi collegiali di un partito aiutino il leader a vedere la realtà per quello che è.

Non per ciò che il leader s'è immaginato».

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