Di Maio toglie il gilet e si precipita subito alla corte di Macron

Il ministro dimentica le polemiche con Parigi e flirta col suo omologo francese

Di Maio toglie il gilet e si precipita subito alla corte di Macron

Una volta passati dal «mai col partito di Bibbiano» al governo con il Pd e dall'accusa di «alto tradimento» a Gentiloni a farlo nominare commissario Ue, passare dai gilet gialli a Macron è una passeggiata. In più Luigi Di Maio, fresco di trasloco alla Farnesina, è in ansia di accreditarsi presso le cancellerie internazionali, consapevole della scarsa fiducia di cui gode per le posizioni tenute dal M5s sui dossier che interessano le potenze alleate (dal Venezuela ai rapporti con la Cina, dagli F35 alla Libia). Non sorprende quindi l'ennesima giravolta del leader (ex?) pentastellato anche per quanto riguarda le relazioni con la Francia e l'entusiasmo con cui ha ricevuto la lettera recapitatagli dal suo omologo parigino, Jean-Yves Le Drian, il macroniano ministro degli Esteri francese. Intervenendo in un programma radiofonico Le Drian ha detto che «in Italia c'è un governo che appare più determinato ad avere relazioni positive con la Francia, più aperte anche a mettere in atto politiche migratorie condivise. Ho scritto a Di Maio e dopo quello che è successo, speriamo di avere relazioni più costruttive». Il riferimento del ministro francese è all'incidente diplomatico verificatosi nel febbraio scorso, proprio per colpa di Di Maio. L'allora vicepremier grillino, nel pieno degli scontri in Francia tra gilet gialli e polizia, andò ad incontrare Christof Chalencon, uno dei leader più estremisti del movimento di protesta francese (disse di essere «pronto a intervenire con dei paramilitari» per far cadere Macron), evidenziando dopo la chiacchierata con i gilet gialli «posizioni e valori comuni che mettono al centro delle battaglie i cittadini, i diritti sociali, la democrazia diretta e l'ambiente». Un clamoroso schiaffo al governo francese da parte di un membro dell'esecutivo italiano che portò al richiamo a Parigi dell'ambasciatore Christian Masset, fatto gravissimo segno di una tensione tra i due paesi mai stata così alta dalla Seconda guerra mondiale in poi. Tutto grazie all'opera di Luigino Di Maio, che poi provò a rimediare all'incidente - su pressione di Mattarella - con una lettera a Le Monde in cui riuscì a infilare una gaffe ridicola definendo la Francia una nazione dalla «tradizione democratica millenaria», invece che centenaria. Ma usando poi la Francia di Macron come argomento di polemica strappaconsensi per tenere testa nei sondaggi alla Lega, come quando minacciò: «La Francia cominci ad aprire i porti. I migranti li portiamo a Marsiglia finché non la smettono di stampare a Lione la moneta per l'Africa».

Tutto dimenticato, adesso il ministro Di Maio all'ombra del premier europeista Conte (a sua volta all'ombra del Quirinale) non vede l'ora di essere apprezzato dai francesi. E infatti il grillino fa subito sapere di essere pronto a un incontro «al più presto, per discutere in modo positivo e costruttivo delle comuni sfide a livello europeo ed internazionale». Ma le diplomazie straniere hanno già preso le misure a Di Maio durante il governo gialloverde, e hanno capito che vanno studiate le cose che fa più di quelle che dice.

E infatti sotto l'attenzione è finita la prima nomina fatta alla Farnesina dal neoministro che ha scelto come su Capo di gabinetto Ettore Sequi, attuale ambasciatore d'Italia a Pechino. Decisione letta come la prova che Di Maio voglia proseguire nella strada degli accordi commerciali con la Cina. Quella «via della Seta» guardata con grande diffidenza da Europa e soprattutto dagli Usa.

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