Il governo del cosiddetto cambiamento è finalmente riuscito a introdurre una novità. Quest'anno, infatti, l'assalto alla diligenza sui contenuti della manovra parte prima del solito. Il deterioramento del quadro macroeconomico e i timori internazionali sulla tenuta dei conti pubblici, testimoniati dal rialzo dello spread tra Btp e Bund che ieri ha chiuso a 291,4 punti confermando lo sfondamento della soglia psicologica di 290.
Il vicepremier pentastellato Luigi Di Maio ha chiesto al ministro dell'Economia, Giovanni Tria, un'accelerazione sul versante del reddito di cittadinanza che non si limiti esclusivamente al potenziamento dei centri per l'impiego. Il Tesoro già da tempo ha iniziato una ricognizione delle misure già in campo per traslare le risorse sulla provvidenza voluta da M5s. La sensazione, però, è che Di Maio, anche per motivi elettorali, non voglia accontentarsi di una rimodulazione del Rei e della Naspi aumentandone lievemente la dotazione finanziaria. Stesso discorso per l'innalzamento delle pensioni minime (surrogato della «pensione di cittadinanza) che dovrebbe finanziarsi parzialmente con il taglio degli assegni superiori ai 4mila euro netti mensili che «farebbe saltare il sistema», come dichiarato da Alberto Brambilla, consigliere della Lega per le materie previdenziali. Di qui il vertice della prossima settimana tra il premier Conte, il ministro Tria, i due vicepremier e il sottosegretario Giorgetti per mettere a punto i dettagli della prossima manovra.
Il Carroccio, va detto, è stato meno invasivo rispetto all'ingombrante alleato. Il superamento della legge Fornero con l'introduzione di «quota 100», secondo le stime leghiste, costerebbe meno di 3,5 miliardi, mentre per quanto riguarda la flat tax, ormai da tempo, le dichiarazioni di Salvini e di Giorgetti sono improntate alla prudenza. Tra sterilizzazione delle clausole di salvaguardia (12,4 miliardi), maggiore spesa per interessi (3 miliardi), spese indifferibili e aumenti contrattuali (5 miliardi) e apertura dei dossier pensioni e fisco parte già da una base compresa tra 25 e 30 miliardi.
L'incertezza generata dalle dichiarazioni degli esponenti pentastellati ha già causato effetti nefasti non solo sul differenziale di rendimento con i titoli decennali tedeschi, ma anche nella percezione delle agenzie di rating e, dunque, dei mercati in generale. La narrazione grillina, infatti, prevedrebbe un incremento del deficit-Pil verso la soglia del 3%, a fronte dello 0,8% attualmente programmato per il 2019, in modo da recuperare circa 35 miliardi per finanziare i 17 miliardi di reddito di cittadinanza semi-universale, interventi sulle pensioni e maggiori investimenti. Anche se il viceministro M5s dell'Economia, Laura Castelli, ancora ieri ha cercato di rassicurare ribadendo che «nel bilancio dello Stato ci sono le risorse che servono» alludendo a una spending review vigorosa che, se effettuata tramite il taglio dei bonus, si concretizzerebbe in un aumento della pressione fiscale.
Ecco perché il suggerimento di Renato Brunetta e di tutta Forza Italia meriterebbe maggiore attenzione: potrebbe giovare al sistema-Paese intero anticipare la Nota di aggiornamento del Def rispetto alla scadenza del 27 settembre in modo da chiarire gli obiettivi
programmatici di bilancio all'Ue e al mercato. Il ministro Tria è sicuramente sensibile a questi richiami e anche la Lega pare mostrare disponibilità all'ascolto. M5s, invece, sembra stia prendendo la rincorsa verso il burrone.
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