Roma Il reggente del Pd Maurizio Martina usa parole caute, ma il messaggio è chiaro: certo, «il 4 di marzo gli elettori ci hanno dato un segnale chiaro, abbiamo perso e dobbiamo prepararci a essere minoranza parlamentare». Opposizione, dunque, come sancito anche dalla Direzione sulla linea renziana. Ma poi Martina aggiunge che «non siamo indifferenti agli indirizzi che il presidente Mattarella intenderà dare a questa legislatura».
Opposizione, certo, ma fino a quando non suonerà - se suonerà - l'ora della «responsabilità»: se il Quirinale, nel suo sforzo di dare un governo al Paese, dovesse chiedere un sacrificio al Pd, troverà orecchie «non indifferenti». Anche perché l'alternativa sarebbe quella di precipitare verso un voto anticipato dal quale il Pd teme di aver tutto da perdere: «Finiremmo al 10 per cento», dice Dario Franceschini.
Del resto, anche le parole di esplicita preoccupazione per la situazione italiana e le sue ripercussioni sull'Unione europea, arrivate ieri dal vertice Merkel-Macron all'Eliseo, sono un segnale in quella direzione: «È ovvio - ragiona un dirigente Dem - che Mattarella userà questi allarmi dei nostri partner Ue per spingere tutti verso un'assunzione di responsabilità. E noi, che siamo una delle poche forze europeiste rimaste in questo Parlamento, non potremo certo restare sordi ad un richiamo del genere».
Il timore diffuso, tra i dem, è che sul bivio governo sì-governo no il partito si spacchi: «Da una parte i renziani che vorrebbero spingere per un esecutivo di centrodestra a guida moderata, dall'altra la sinistra che guarda ai Cinque Stelle, sullo sfondo il grosso dei parlamentari che farà di tutto pur di non tornare a casa: il rischio di rottura è alto», dicono in casa Pd. Anche per questo ieri Martina ha tirato fuori il «modello Spd», quello della consultazione degli iscritti sulle scelte da fare nei «passaggi chiave». È un'ipotesi che già aveva affacciato, nell'ultima Direzione, Sergio Chiamparino (il primo dei big ad esporsi su un possibile dialogo con i grillini), e che Martina ieri ha raccolto e riproposto
La partita del governo è però ancora di là da venire. Le consultazioni non si apriranno prima di inizio aprile. E l'assemblea nazionale destinata a decidere sulla leadership del Pd slitterà di conseguenza: doveva tenersi a inizio aprile, ora se ne parla per maggio o addirittura giugno: del resto, il quadro generale è talmente confuso che mettersi a litigare dentro il Pd su come e chi eleggere segretario sarebbe poco sensato. Fino ad allora, Martina cercherà di tenere insieme le diverse anime interne, mentre Renzi (che ieri era al Nazareno) si tiene defilato. La partita delle presidenze delle Camere viene affrontata sapendo che, di fronte ad un accordo centrodestra-Cinque Stelle il Pd non sarà determinante. La candidatura dell'azzurro Paolo Romani al Senato è ben vista in casa Dem, ma con la consapevolezza che non basterebbero i voti del Pd a farlo eleggere, senza l'avallo di Matteo Salvini.
Martina si appella al «principio della massima condivisione» e che «quando toccò al Pd, Di Maio venne eletto vice con i nostri voti»: un modo per dire che, se il Pd darà il proprio apporto ai candidati presidenti (purché «di alto profilo») che verranno scelti da chi ha il pallino, si aspetta un trattamento analogo.
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