È l'ultima toga in trincea. E bisogna dargli atto di aver sempre agito fuori dagli schemi e dalle cordate. Basterà ricordare che è stato lui, davanti al plenum del Csm, a svelare l'andirivieni dei verbali dell'avvocato Amara schierandosi senza se e senza ma a difesa di Sebastiano Ardita, finito nel mirino di Piercamillo Davigo. Davigo è appunto fuori gioco, Francesco Greco si trova a guidare a un passo dalla pensione una procura di rito ambrosiano divisa in fazioni, Ilda Boccassini coltiva la memorialistica. Lui, Antonino Di Matteo, scrive con Saverio Lodato un libro, I nemici della giustizia, Rizzoli, nome che è tutto un programma: sembra di essere tornati a dieci-quindici anni fa, quando i magistrati parlavano ex cathedra, scomunicavano le proposte della politica, falciavano l'erba nuova del cambiamento con giudizi affilati.
Il primo bersaglio è la riforma Cartabia, peraltro caldeggiata dall'Europa: «La ritengo una delle peggiori degli ultimi trent' anni - spiega al Fatto quotidiano - L'Europa chiedeva di accelerare i processi, ma se fosse stata in vigore la riforma Cartabia, processi importanti come quello per il crack Parmalat, la strage di Viareggio e per le violenze nella scuola Diaz di Genova del 2001, si sarebbero conclusi nel nulla». È una storia che si ripete con disarmante continuità dai tempi di Mani pulite: ogni ipotetica riforma porterebbe fatalmente - a dare retta ai giustizialisti di turno - all'azzeramento di dibattimenti importantissimi, sarebbe un assist per colletti bianchi corrotti e delinquenti di ogni risma, avrebbe un impatto drammatico se non apocalittico sul sistema. Con questa tecnica collaudata, tutti i tentativi di rinnovare la macchina si sono arenati, oggi la percezione è cambiata ma non per tutti. Dal suo bunker, Di Matteo lancia l'allarme e chiama a raccolta le truppe disperse nella nebbia che ha avvolto i giudici italiani. «Questa normativa - insiste a proposito della Cartabia - presenta per me aspetti di evidente incostituzionalità.
Va nella stessa direzione del processo breve voluto dal premier Berlusconi e dal ministro Alfano nel 2009». Insomma, l'ex presidente della Consulta avrebbe messo la faccia e il nome su una legge fuori dal perimetro della nostra Costituzione. E, oltre tutto, pericolosamente vicina alla norma voluta dal Cavaliere nel 2009. Insomma, l'Italia ha voltato pagina, ma le ossessioni per qualcuno restano sempre le stesse. E il cantiere legislativo finalmente aperto avrebbe solo lo scopo di punire le toghe: «Dobbiamo indignarci. Sono tanti quelli che vogliono approfittare di questo momento difficile per regolare i conti con i magistrati che hanno saputo esercitare il controllo di legalità».
Certo, con l'onestà intellettuale che gli si deve riconoscere, Di Matteo punta il dito contro «il correntismo, la corsa sfrenata alla carriera... il collateralismo con la politica» di tanti colleghi che hanno giocato di sponda con il Palazzo. Di Matteo è e resta un libero battitore, un uomo esemplare per coraggio e tenacia, ma la sua visione è prigioniera di quella mentalità militante: si dice contrario a 5 dei referendum, mentre il sesto è inutile, e quando si arriva alla separazione delle carriere non rinuncia a citare Licio Gelli, esattamente come facevano molti dirigenti dell'Anm nei convegni di 15 o 20 anni fa: «Il primo piano in tal senso era quello di Rinascita Democratica di gelliana memoria, poi è diventato una bandiera di Forza Italia e del centrodestra. L'appiattimento dei giudici sui pm è un falso storico».
Avanti di corsa, verso un passato glorioso, rivendicato anche se conteneva i germi della malattia e del declino. E il verdetto sui rapporti Stato-mafia che ha smontato la sua inchiesta? «Nessuna sentenza - risponde l'inscalfibile Di Matteo - potrà mai cancellare i fatti storici emersi in quel processo».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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