Un inno al libero mercato, un messaggio forte di sostegno all'impresa, un appello a restare fermi e uniti sulla Brexit, un attacco feroce all'opposizione di Jeremy Corbyn («tragedia nazionale») ma soprattutto l'annuncio inatteso che, dieci anni dopo la crisi finanziaria, «l'austerità è finita». Theresa May archivia il flop dell'anno precedente presentandosi sul palco del Congresso Conservatore carica e ironica come non la si era mai vista, galvanizzata mentre balla sulle note di Dancing Queen degli Abba (un bis cercato dopo la performance imbarazzante in Sud Africa). Anche stavolta l'esibizione è goffa e un po' ridicola ma il messaggio è chiaro e arriva a destinazione. Memore degli errori di un anno fa, la premier vuole prendersi la scena, giocare con l'autoironia prima di essere seppellita da quella altrui e farsi regina di un appuntamento cruciale per i destini del suo partito e della Gran Bretagna, alle prese - ammette - con «la fase più dura delle trattative» per l'uscita dall'Unione europea. May vince la sfida, il discorso è il migliore mai pronunciato dalla premier, anche se i tentativi dei fan della hard Brexit per spodestarla sono ancora in corso. Mentre la premier parla, alcuni deputati tentano ancora la carta della sfiducia per rimuoverla (ma serve il sostegno di almeno 48).
Ride di sé la premier, della tosse insistente che rovinò il suo discorso l'anno prima, ma poi affronta a tutto tondo le questioni «calde» e promette agli elettori che porterà a compimento la Brexit, avvertendo però gli oltranzisti: «Cercare quella perfetta rischia di farci finire senza nessuna Brexit». Poi la precisazione, un messaggio che rincuora gli hard Brexiters, strappa l'applauso della platea ed è un avvertimento a Bruxelles: «La Gran Bretagna non ha paura di uscire senza intesa, se dovrà». Eppure «dobbiamo essere onesti su questo punto: uscire senza un'intesa, introdurre dazi e costosi controlli alla frontiera sarebbe un brutto risultato per la Ue e per il Regno Unito». È la risposta ragionata a Boris Johnson che il giorno prima ha definito «un oltraggio» il piano della premier per la Brexit. Un progetto - il piano Chequers - che la stessa May non chiama mai con il suo nome, cosciente dell'impopolarità che raccoglie nel partito, ma che difende nei contenuti («commercio dei beni senza attriti con la Ue e difesa dell'unità Paese»). Quanto al secondo referendum: «Lo chiamano People's Vote (il voto della gente) ma il voto c'è già stato e la gente ha deciso di andarsene». Sarebbe semmai «un voto politico»: «Hanno detto alla gente che ha sbagliato la prima volta e deve scegliere di nuovo». Invece no. Brexit vuol dire che la «libertà di movimento finirà una volta per tutte» e la Gran Bretagna «riprenderà il controllo» delle frontiere, premiando fra i migranti i lavoratori più qualificati.
May ricorda i risultati dei Tory (disoccupazione ai minimi, deficit giù) difende a spada tratta i valori conservatori (patriottismo contro nazionalismo, libertà d'impresa contro le nazionalizzazioni del Labour), promette che congelerà ancora le accise sul carburante, introdurrà una tassa sugli acquisti immobiliari stranieri, combatterà l'emergenza abitazioni e sosterrà il mondo degli affari (Back business contro il Fuck Business di Johnson, «quattro lettere, finisce per k ma è un'altra cosa», ironizza). Eppure a colpire è quanto tempo la premier dedichi al leader dell'opposizione Corbyn, quanto duro picchi sul capo del Partito Laburista, accusandolo di rifiutare i «valori comuni» che un tempo anche la sinistra condivideva, di aver chiesto ai russi - sul caso Salisbury - conferma sulle indagini inglesi. «Appalterebbe la sicurezza al Cremlino», dice. È un modo per avvertire dei rischi che i Conservatori corrono in caso di spallata alla sua leadership.
May vuole accreditarsi come leader di un partito che deve essere «decente, moderno e patriottico». Solo l'esito delle trattative, interne ed esterne sulla Brexit, dirà se è davvero regina o se qualcuno si divertità a ballare sulle sue ceneri.
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