Medici di base "isolati". E 30mila pazienti rimangono senza cure

«Facciamo ricette online ma non abbiamo gli strumenti per i certificati ai bambini»

Medici di base "isolati". E 30mila pazienti rimangono senza cure

Un medico di famiglia è malato, uno è positivo al test e in 15 sono in quarantena. Che il coronavirus avesse colpito soprattutto la categoria dei camici bianche ce ne siamo accorti da subito, ma è adesso che si cominciano a vedere gli effetti collaterali (e sociali) di questi contagi.

«Ci sono 30mila pazienti senza medico, che non possono ricevere cure». A fare i conti è i segretario nazionale della Federazione dei medici di medicina generale Fimmg, Silvestro Scotti. Insomma, in temi di coronavirus, non ci si può ammalare di altro, diventa tutto molto - ma molto - più complicato. Il problema è avvertito soprattutto nella zona rossa, ma anche nel resto d'Italia l'assistenza medica di base comincia a scricchiolare. «Senza dispositivi di protezione, che i medici di famiglia ancora non hanno e che chiedono a gran voce da giorni - spiega Scotti - c'è il rischio che i contagi crescano. Dal ministero della Salute, ci hanno assicurato che attraverso la Protezione civile verranno acquistati i materiali. Ma le Regioni devono inserire i medici di famiglia e i pediatri nell'elenco di chi ha bisogno di queste dotazioni. Spero che non si perda ulteriore tempo».

Per gestire il flusso dei pazienti ma evitare assembramenti nelle sale d'attesa, i medici di famiglia intensificano le ricette elettroniche: forniscono cioè ai pazienti un codice con cui si possono presentare in farmacia e richiedere i medicinali prescritti. «Certo, la cosa non varrà per le ricette per farmaci di fascia C e per quelle fuori sistema sanitario ma mi sembra già un passo avanti» commenta Fiorenzo Corti, della Federazione dei medici di famiglia. Tuttavia giudicano una follia il certificato per il rientro dei bambini a scuola: non hanno gli strumenti per verificare se un alunno è malato di coronavirus o no. I medici stanno facendo il possibile per garantire il servizio di cure. E collaborano, sia fuori sia dentro gli ospedali. Al Sacco ad esempio, cuore dell'emergenza, gli altri reparti danno una mano ai colleghi di Terapia intensiva, quelli più in prima linea per assistere i malati gravi. «Noi abbiamo temporaneamente chiuso il reparto di unità coronarica - spiega il primario di cardiologia dell'ospedale Maurizio Viecca - e siamo riusciti a dare i nostri infermieri a terapia intensiva. Così sarà più facile organizzare i turni. Forse non tutti lo sanno, ma è molto pesante indossare le tute anti contagio, non sono i classici camici usa e getta ma là sotto fa un caldo pazzesco».

A quasi una settimana da quando la macchina dell'emergenza si è messa in moto, Viecca comincia a tirare le fila del lavoro fatto finora: «La Lombardia ha avuto un comportamento encomiabile, i medici e la Regione hanno agito bene. Siamo un modello per il resto del mondo. Non a caso - aggiunge - i nostri clinici, oltre alla mole immensa di lavoro di questi giorni, ricevono le chiamate dei colleghi di altri Paesi che chiedono indicazioni sul da farsi». Ed è a fronte di questa professionalità che i camici bianchi non ci stanno a veder accusare i colleghi dell'ospedale di Codogno, su cui la Procura ha aperto un'inchiesta.

«Oggi, a virus circolante, si cerca ancora qualcuno a cui dare la colpa? - aggiunge Carlo Montaperto, presidente dell'associazione primari ospedalieri - Nessun protocollo di contrasto alla diffusione epidemica era pronto finché non è emerso

il caso uno. Grazie ai medici di Codogno abbiamo intercettato il paziente e messo in quarantena le aree a loro e nostra protezione. Nessuno ha pensato a emettere un protocollo prima dell'arrivo del virus a casa nostra?».

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