Da Gallarate, vicino Varese, a Grumo Appula in provincia di Bari. Da Bologna a Terrazzo, duemila anime tra Verona e Rovigo. Non conosce zone bianche o zone rosse, il sacrificio silenzioso dei medici italiani sul fronte del coronavirus. Ieri si supera quota trecento morti: e forse non sarebbe eccessivo paragonarli ai trecento delle Termopili, immaginarli come guerrieri in camice bianco che si sono battuti per fermare l'avanzata del nemico.
Ma questi, a combattere sono stati mandati senza armi. Fin dall'inizio, dottori di ogni settore - dai medici di famiglia agli specialisti dei reparti di rianimazione - hanno denunciato la carenza dei più banali dispositivi di protezione, dai guanti monouso alle mascherine. Ma ieri dalla federazione nazionale degli Ordini dei medici arrivano i dati più disarmanti: anche adesso, nelle settimane cruciali della prima campagna vaccinale, i sanitari sono stati lasciati in seconda fila. Dovevano essere loro i primi a ricevere la profilassi, in realtà solo una parte delle dosi disponibili è stata iniettata a loro, o agli infermieri o agli anziani delle Rsa: su un milione e 300mila dosi, quasi quattrocentomila sono finite a chi non ne avrebbe avuto diritto. Centinaia di migliaia di medici continuano a restare al loro posto senza lo scudo del vaccino.
Sono due, ieri, i decessi che fanno raggiungere la triste vetta dei trecento medici caduti. A Reggio Calabria muore Bartolo Tarsia, medico di medicina generale, ovvero medico di base: aveva sessantanove anni, si era ammalato visitando un paziente, a fine anno era risultato positivo al tampone molecolare, per le prime settimane era riuscito a restare a casa; il 7 gennaio fa il peggioramento delle sue condizioni aveva costretto a ricoverarlo in ospedale, poi il passaggio in terapia intensiva. Tutto inutile. Poche ore prima di lui, a Gallarate era spirato Agostino Consolaro: era in pensione, ma in tutti questi mesi aveva continuato a visitare i pazienti bisognosi. Una dedizione che gli è stata fatale.
I dati raccolti dall'Ordine documentano come la seconda ondata del Covid, arrivata a metà autunno, abbia investito la categoria con la stessa violenza della prima: centoventi morti solo dall'1 ottobre. É la prova, secondo il presidente della federazione nazionale, Filippo Anelli, che solo la vaccinazione di massa dei medici può permettere alla categoria di affrontare l'emergenza senza venire travolta dai contagi. Per questo Anelli trova scandaloso il dato delle 400mila dosi inoculate fuori dalle categorie previste: «È inaccettabile vedere persone che non svolgono un'attività così rischiosa essere sottoposte al vaccino e osservare una larga parte della professione medica non ancora vaccinata». I dati cono inequivocabili, «il 25 per cento dei decessi è nel comparto sanità», vuol dire che in Italia un morto su quattro è un medico o un infermiere. E questo dato «vanno sommati i medici di medicina generale che costituiscono oltre la metà dei caduti nella seconda fase della pandemia».
La Federazione denuncia anche come la campagna vaccinale abbia discriminato una parte importante della categoria: «In molte regioni i colleghi che operano nelle strutture private accreditate non sono stati ancora ricompresi nella campagna vaccinale. Come si fa a escludere una parte così importante della professione dalla possibilità di proteggersi?».
E Anelli ricorda anche una categoria particolare, i dentisti, che per ovvi motivi non possono imporre la mascherina ai loro pazienti, e quindi sono esposti particolarmente al rischio: ma spesso anche loro vengono esclusi dalla vaccinazione.
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