Per gentile concessione dell'editore Mondadori, pubblichiamo un brano dal libro di Nadia Toffa Fiorire d'inverno. La mia storia (pagg. 144, euro 18).
di Nadia Toffa
Quando avevo 9 anni mio padre aveva deciso di costruire una casa nuova, più grande, appena fuori Brescia, dove ci saremmo trasferiti.
Spesso con la mamma andavamo in bici a vedere come proseguivano i lavori, mia sorella su una bicicletta rosa di Barbie, io su una BMX coi freni consumati che mi rifiutavo di cambiare e la sella lunga, da maschio, che avevo voluto a tutti i costi.
Mia madre entrava per controllare l'avanzamento dei lavori e ci lasciava fuori.
I garage erano stati finiti per primi. Così mi ero inventata un gioco: bisognava lanciarsi giù in bici, a tutta velocità, lungo la rampa dei box, e appena prima di spiaccicarsi contro la saracinesca buttarsi di lato su un fazzolettino di prato.
Mia sorella rallentava la discesa con i freni, mentre io lasciavo scorrere le ruote.
Nostra madre non ne sapeva niente, ce l'avrebbe sicuramente impedito. «Dai Silvia, andiamo». «No, questa volta no, ho paura» aveva piagnucolato lei. «Ma quale paura? I freni della tua bici funzionano benissimo».
Quel giorno mia sorella non ne voleva proprio sapere e se n'è andata a fare un giro per conto suo, lasciandomi sola con la mia personale sfida. A ogni discesa alzavo la posta e mi lanciavo di lato sempre più tardi. Mi sentivo invincibile, sapevo come fare, non avevo paure o titubanze e la bici non mi avrebbe mai tradito.
Mentre mi stavo rialzando dall'ultimo salto, ho visto che la gamba destra era ricoperta di sangue. Il cuore ha cominciato a battere più veloce, ho guardato meglio. Lungo la tibia si era aperta una ferita lunga e profonda, composta, un taglio preciso. Lì accanto ho visto sparsi per terra mattoni rotti, cocci, vetri di varie dimensioni lasciati dagli operai. Non mi aveva tradito la bicicletta, né i miei nervi o i miei riflessi, mi aveva tradito un imprevisto. Sono salita in sella e senza dirlo a nessuno sono andata fino a casa, poi mi sono chiusa in bagno. Mi sono medicata da sola e nel tentativo di tamponare la ferita ho inzuppato di sangue un intero asciugamano. Poi me ne sono liberata, per non lasciare tracce.
Un altro bambino sarebbe andato dalla mamma a piangere, io non l'ho detto a nessuno. Per nascondere la cicatrice ho portato i pantaloni lunghi per tutta l'estate.
Mi sono sempre comportata così, se facevo qualcosa di pericoloso e mi facevo male, lo tenevo per me.
Se fossi andata a farmi consolare da mia madre, mi avrebbe trattato come faceva con mia sorella Silvia: non fare questo, non fare quello! E invece io volevo fare tutto. Se fossi andata da lei in lacrime, avrebbe pensato che soffrivo e si sarebbe spaventata.
Ma soprattutto avrebbe pensato che ero fragile.Per questo, quando ho scoperto di avere il cancro, ho chiesto a tutti di non trattarmi da malata, perché non volevo sentirmi come la ragazzina spaurita che si è trovata all'improvviso un taglio su una gamba.
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