Era il rito più milanese di tutti, quello imitato in mezza Italia ma anche d'oggetto di ironie diffuse: l'happy hour altrimenti detto apericena, le ondate di birre e di spriz che dall'imbrunire invadevano i banconi, accompagnati da cataste di cibo di alterna qualità. E c'è qualcosa di surreale, di beffardo, nel fatto che proprio questo rito sia la prima, visibile vittima della stagione cupa che Milano si prepara ad attraversare. Ieri, la prima sera di coprifuoco scatta alle 18, l'ora fatale sancita dalla circolare della Regione. Alla stessa ora in cui fino all'altro giorno si riempivano i vassoi sui banconi e la movida scaldava i suoi motori, ieri i camerieri iniziano mestamente ad accatastare le sedie sui tavoli. All'ora in cui si accendevano, adesso le luci si abbassano. Calano le serrande sui templi della Milano da bere: il Trottoir, il Tortuga, il Mom. Al Capetown di via Vigevano, lo staff rimbalza i pochi ignari del divieto: Ragazzi, si chiude.
La giornata della nuova vita di Milano era iniziata dodici ore prima con i primi mezzi pubblici in movimento: i tram a quell'ora usualmente pieni di gente persa nel sonno o nello smartphone, accalcata nella routine del viaggio casa-lavoro. Invece ieri sul 24 - un tram di venti metri, con ottanta posti a sedere - i passeggeri si contano sulla dita. Alla fermata Bisceglie del metrò, a quest'ora i pullman dalla provincia scaricavano fino a venerdì una fiumana di pendolari che sembrava travolgere ogni cosa. Ieri, manciate sparse di irriducibili scivolano verso la metropolitana, con l'aria di chi vorrebbe essere altrove. Milano ha smesso di essere il cuore pulsante, il centro di gravità su cui quell'organismo complesso che è il territorio di una megalopoli riversava ogni mattina le legioni della forza lavoro. Milano è malata, chi può evita di venirci, chi resta fa i conti con una realtà mai immaginata.
Sta in queste due immagini di desolazione - i tram deserti dell'alba, i bar chiusi del tramonto - la sintesi di questa giornata, la prima di una serie di durata imprevedibile. Il resto è fatto di piccoli flash, scatti di smarrimento ma anche di istinto di sopravvivenza che la città dedica a se stessa. Chi non vive queste ore sotto la Madonnina non deve immaginare panorami spettrali. Milano va avanti, con il suo umore coriaceo, con il suo orgoglio di non mollare, con i suoi sprazzi di ironia. Con la sua inguaribile, maniacale efficienza: alle 9 del mattino i professori del liceo Berchet hanno già mandato gli alunni via mail l'elenco dei compiti da fare in questa settimana di assenza forzata; il panettiere egiziano di corso Lodi garantisce ai clienti che le scorte di farina sono abbastanza per reggere un assedio. Ma è impossibile non cogliere l'inquietudine di fondo di queste strane ore. Le serrande abbassate della fondazione Prada e dei Musei d'Italia, i simboli del mecenatismo lombardo. Il Duomo chiuso, dove le guardie con le mascherine fanno entrare solo chi deve pregare. Le vetrine desolate in Galleria dei negozi delle grandi marche, dove commessi - chi con maschera, chi senza - aspettano invano che qualcuno si faccia vivo.
La città va avanti, non è ferma. In tribunale i giudici tengono udienza a volto scoperto, gli avvocati si affollano come ogni giorno all'aula per la convalida degli sfratti. Funzionano i taxi, i tram, le banche. Ma è tutto rarefatto, chi ascoltasse oggi il battito di Milano lo sentirebbe sincopato, quasi sospeso. Ci si arrabbia per cose da nulla. Davanti alla Scala una signora brontola perché le hanno annullato la recita del Trovatore, e adesso che è venuta a farsi ridare i soldi ha trovato la biglietteria chiusa: E io arrivo dall'altra parte della città!. Ma ci si arrabbia, e giustamente, anche per cose ben più gravi: i centralini dell'emergenza che vanno in tilt, la gente che teme di essere malata ma dall'altra parte del telefono sente solo squillare a vuoto fin quando cade la linea. E poi quelle istruzioni ripetute in ogni talk ed ogni sito: Mettete le mascherine! Disinfettate le mani!. Ma in tutta Milano non c'è più né una mascherina né un flacone di Napisan, e nessuno sa dire quando arriveranno.
Il nemico è alle porte, anzi già dentro le mura. I milanesi lo sanno, e non si può dire che reagiscano male.
Se non fosse per quella paura un po' ridicola di morire, anziché di virus, di fame: alle 15 di ieri all'Esselunga di via Ripamonti, son deserti gli scaffali della pasta, delle uova, della carne. Sono finiti persino i ceci. Ma fino a ieri, chi li mangiava i ceci a Milano?
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