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Parigi Da qualche tempo a questa parte nella moda ci sono due scuole di pensiero: una semplicità talmente sofisticata da sconfinare nel sublime e uno stile così massimalista e ridondante da far pensare alla Rificolona, antica festa del folklore fiorentino nota per le lanterne riccamente addobbate. Alberto Biani per il marchio che porta il suo nome e Andreas Kronthaler per Vivienne Westwood sono i migliori esempi di questi estremi opposti e inconciliabili. Portatore sano di una lucida follia che lo porta a creare le stesse elegantissime cose in modo sempre nuovo, Biani stavolta parte dalla lettura del National Geographic e arriva in Tibet con un indimenticabile cappotto costruito in sartoria a Savile Row assemblando diversi tessuti. Lo stesso modello in raso di seta leggermente imbottito ha la più bella stampa leopardo che si possa immaginare e viene presentato con dei semplici calzoni da sci degli anni Sessanta oppure con il sofisticato tailleur pantalone in jersey gessato. «È una cosa talmente finta da diventare vera» dice lui davanti alle nuove pellicce ecologiche negli stessi doviziosi colori del Tibet millenario (giallo zafferano, porpora, blu lapislazzuli) ma con gli inconfondibili tagli a ovetto oppure dritto da uomo che rendono i cappotti di Biani semplicemente chic. Tutt'altra atmosfera sulla passerella di Vivienne Westwood dove sfila anche lei, leggendaria signora di 77 primavere compiute per presentare la fantasmagorica collezione creata dal suo giovane e adorante marito. Nato e cresciuto in Austria, Andreas parte dal centenario della nascita del modernismo viennese, passa dai dipinti di Klimt (soprattutto Danae fecondata nel sonno da Zeus) che sotto forma di poster ornavano la sua cameretta da bambino e approda sui classici costumi tirolesi (lederhosen per lui e drindl per lei) senza comunque dimenticare il ricchissimo vocabolario di stile della moglie. C'è talmente tanto di tutto che non si sa più dove guardare anche se certi pezzi parlano da soli: giacche e cappotti a palloncino, gonne corte a panier e grandi maniche a jambon dicono Westwood in tutte le lingue del mondo. Si ritorna alla semplicità intesa come ultimo rifugio del complicato da Ivana Omazic, adorabile designer croata che ha studiato moda a Milano, poi ha lavorato per cinque anni da Celine e per quasi due nell'ufficio stile di Margiela prima di tornare a Zagabria. Qui disegna e produce una linea che le somiglia e che non a caso ha battezzato IO. Ci sono tuniche in maglia tricottate a mano da una cooperativa di donne di Sarajevo che in ogni capo usano sette tipi di punti e misure di ferri diversi, abiti e cappotti neri con lineari decorazioni in foglia d'oro applicate manualmente da un orafo e poetiche felpe dipinte a mano. Il sogno di Ivana sarebbe presentare la prossima collezione a Milano. Marianna Rosati è invece convinta che Parigi sia la piazza giusta per il suo marchio DROMe, pensato e prodotto in Toscana nell'azienda di pelletteria fondata dal padre. Forse ha ragione perché la collezione ha ormai raggiunto un livello di creatività molto alto. Sensazionale, ad esempio, il paltò effetto lamiera che in realtà è camoscio trattato con polvere argentata. Edgardo Osorio, talentuoso designer del marchio di scarpe Aquazzurra, in 5 anni è passato dalle presentazioni carbonare in un vecchio albergo parigino a quella di ieri nei lussuosi spazi dell'hotel d'Evreux in place Vendome. Dire che se lo merita è poco: le sue scarpe ispirate al lusso dell'impero ottomano sono semplicemente divine.
Invece Delphine Delafon, giovane designer che ha avuto un discreto successo con una borsa a mezzaluna, ha disegnato una collezione di abiti tutti neri. «Sembra un funerale» le han detto amici e parenti per cui lei ha organizzato una presentazione a suo modo ironica: con 15 donne addolorate attorno al corpo di un uomo circondato da fiori e candele.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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