La minoranza Pd all'assalto. E tutto torna in discussione

Se il centrodestra dovesse sfilarsi il premier sarebbe costretto a cedere sulle riforme per restare in piedi. Dalla legge elettorale a fisco e lavoro, ecco cosa può essere stravolto

La minoranza Pd all'assalto. E tutto torna in discussione

La confluenza dei voti alfaniani e centristi (e anche forzisti) ne ha un po' depotenziato il ruolo, ma non c'è dubbio che un vincitore della partita del Quirinale sia stato proprio Pier Luigi Bersani. Ieri in un'intervista al Corriere ha rivendicato il proprio peso e ha posto un'ipoteca sulle prossime riforme, anche in ambito economico.

«Il Pd deve parlare con tutti ma non partendo dal presupposto che c'è qualcuno di indispensabile», ha sottolineato aggiungendo che «abbiamo la forza sufficiente per dire la nostra e per trovare nel Parlamento anche la condivisione necessaria». L'ex segretario ha anche messo in evidenza come Mattarella non possa essere catalogato come un semplice passacarte. «È un giurista, non è uno che fa passare qualsiasi cosa. Certe sciocchezze incostituzionali non le farà passare», ha dichiarato, mostrando una vena di rancore in virtù delle sue ambizioni costantemente frustrate dalla Realpolitik di Napolitano.

Il primo pensiero di Bersani, infatti, è andato all'Italicum, «un meccanismo che mi suscita delle perplessità, non sono un costituzionalista ma credo che sia un sistema che non sta in piedi». Capilista bloccati e collegi estesi non gli piacciono, lui, tatticamente, preferirebbe addirittura un ritorno al Mattarellum. È chiaro che se Forza Italia si sfilasse dal percorso comune, la sinistra del Pd avrebbe gioco facile a chiedere delle modifiche della nuova legge elettorale a lei gradite. È probabile, però, che si tratti di una delle solite intemerate bersaniane, giacché a Renzi il potere di nomina dei parlamentari garba moltissimo e difficilmente vi rinuncerà. E, tuttavia, dopo il tiro mancino subito dal centrodestra sul Colle, al momento è difficile ipotizzare che il premio di maggioranza alla lista vincitrice possa restare così com'è. Una qualche composizione Renzi dovrà trovarla.

È chiaro che la politica dei «tre forni» (con Forza Italia sulle riforme, con Ncd e centristi al governo e con la sinistra per il presidente della Repubblica) lasci parecchi margini di manovra a Palazzo Chigi, a fronte di un'opposizione di volta in volta indebolita. La riforma costituzionale con l'abolizione del Senato, trasformato in un contenitore di consiglieri regionali è passata grazie a Forza Italia. Se gli azzurri si sfilassero, Renzi dovrebbe concedere qualche modifica ai suoi eventuali partner anche in quel caso.

La partita più scottante è quella riguardante le riforme economiche. Il capogruppo al Senato di Ncd ed ex ministro, Maurizio Sacconi, si è dimesso, in polemica sulla scelta di Mattarella. È stato l'unico esponente della maggioranza a garantire che il Jobs Act (di per sé non rivoluzionario in materia di articolo 18) non fosse troppo annacquato. Ieri il «sinistro» Cesare Damiano è tornato alla carica. «Va eliminata l'estensione delle nuove regole ai licenziamenti collettivi, va ripristinata una proporzione fra l'entità delle infrazioni del lavoratore e quella delle eventuali sanzioni, e infine vanno irrobustiti gli indennizzi», ha detto al Velino . Si tratta di decreti attuativi e il Parlamento e il Colle non hanno molto «potere», ma senza centrodestra c'è il rischio di nuovi passi indietro.

Idem per la delega fiscale e per i provvedimenti economici. Bersani ha ribadito il no alle soglie di punibilità per la frode fiscale e allo sblocco delle grandi opere.

Se Mattarella, da uomo di sinistra, si ponesse in ascolto di queste sollecitazioni, Renzi, per convenienza, potrebbe fare marcia indietro. Lui ha dimostrato che del centrodestra si può fare a meno. Ma senza centrodestra le riforme non sono più tali.

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