Il mistero sull'informativa che voleva Bazoli in manette

Caso Ubi, i pm di Bergamo smentiscono le ricostruzioni. "La Gdf non poteva richiedere per lui misure cautelari"

Il mistero sull'informativa che voleva Bazoli in manette

La Guardia di finanza non può chiedere l'emissione di misure cautelari, e comunque non si è mai permessa di suggerire alla Procura di Bergamo l'arresto di Giovanni Bazoli; e dal canto suo la Procura di Bergamo non si è mai sognata di spedire in carcere un signore di quasi 84 anni, incensurato, e del prestigio di Bazoli. È da queste affermazioni, provenienti da fonti ufficiali, che bisogna partire per cercare di ricostruire i boatos che da giorni scuotono gli ambienti finanziari sulla sorte del presidente emerito di Intesa Sanpaolo, indagato con l'accusa di avere governato in modo illecito le assemblee di Ubi, l'Unione bancaria italiana, l'istituto nato dall'accordo tra finanza bresciana e bergamasca.

Delle vicissitudini giudiziarie di Bazoli la stampa aveva dovuto occuparsi il 18 novembre, quando a lui e ad altre trentotto persone era stato notificato dalla procura di Bergamo l'avviso di conclusione delle indagini preliminari, l'atto che precede la richiesta di rinvio a giudizio. Al centro dell'indagine, gli accordi sottobanco che avrebbero governato la vita di Ubi, ben oltre la fine degli accordi alla luce del sole tra le due associazioni, Ablp e Amici di Ubi Banca, guidate da Bazoli e Emilio Zanetti. Bazoli veniva accusato di fare parte della «cabina di regia», e di essere complice nella raccolta di deleghe in bianco in vista dell'assemblea dei soci del 2013.

In teoria, per uno dei reati contestati a Bazoli, l'ostacolo alle attività degli organi di vigilanza, è possibile ricorrere all'arresto. Ma negli atti ufficiali, nei venti faldoni a disposizione delle difese, non c'è traccia di alcuna richiesta in questo senso presentata dal pm. Eppure nel numero in edicola di Panorama si scrive testualmente che «la richiesta è stata inoltrata il 23 dicembre 2015 alla procura della Repubblica di Bergamo dalla Guardia di finanza, a firma congiunta del generale Giuseppe Bottillo e del colonnello Gabriele Procucci». Ieri, i ripetuti tentativi di parlare con il colonnello Procucci risultano vani. Ma alle 14,16 arriva il comunicato ufficiale del procuratore di Bergamo, Walter Mapelli: «Smentisco categoricamente che nel corso dell'inchiesta Ubi il nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di finanza abbia chiesto l'arresto del banchiere Giovanni Bazoli», scrive Mapelli.

Tutto infondato, dunque? In realtà, qualcosa Mapelli aggiunge: «La Gdf ha ritenuto di segnalare alla Procura che nei fatti sui quali aveva indagato poteva ravvisarsi la sussistenza di talune esigenze cautelari, ma le esigenze cautelari sono cosa totalmente diversa da una misura cautelare». Cosa significa? Che nel rapporto del dicembre 2015 i toni delle fiamme gialle non solo su Bazoli, ma su buona parte degli indagati, erano assai pesanti. I vertici del «patto» venivano accusati di avere proseguito le loro manovre occulte non solo prima dell'assemblea ma anche durante e dopo, persino quando Bankitalia e Consob avevano iniziato i loro controlli. A uno dei Bazoli (insieme a Giovanni è indagata anche sua figlia Francesca) secondo Panorama il rapporto della Finanza attribuisce una «indole delinquenziale particolarmente accentuata». Si sarebbe dunque di fronte a un caso classico di «reiterazione del reato», uno dei requisiti che per il codice possono giustificare l'emissione di un mandato di cattura. Ma oltre questo punto le Fiamme gialle non si sono spinte.

Certo, c'è un'ipotesi residuale: che una avance della Gdf, più o meno formale, ci sia stata, e che la Procura l'abbia respinta senza nemmeno volerla ricevere.

Mapelli nega anche che sia accaduto qualcosa del genere: almeno a partire dall'agosto, quando lui ha assunto la guida della Procura orobica. Una cosa sola è sicura: che il processo contro Bazoli va avanti, e che la Procura si prepara a chiedere il rinvio a giudizio di tutti gli indagati.

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