La crisi dei Cinque stelle in due istantanee di ieri: il vecchio fondatore Beppe Grillo furiosamente contestato dagli attivisti davanti al teatro romano in cui si esibiva. «Grillo traditore, volevi silenziarci!»; «Casaleggio Trouffeau»; «Da mai con i partiti ad alleati con la Lega ladrona», gli slogan.
Poi l'immagine - esteticamente piuttosto ripugnante - del senatore Giarrusso che, subito dopo aver votato per salvare l'alleato di governo dal processo, fa il gesto delle manette all'avversario politico Renzi. Due episodi che riassumono perfettamente la scivolosa palude di contraddizioni in cui il partito della Casaleggio è sprofondato. Tanto che la parola «scissione» non è più tabù: «Così è inevitabile», geme più di un parlamentare.
Per un movimento politico allergico per statuto alla democrazia interna, da sempre organizzato in modo leninista attorno ad una azienda privata che lo controlla, ritrovarsi lacerato tra principi identitari (in sintesi, le manette) e ragion di poltrona è uno choc. Il 41% (secondo le cifre della Casaleggio, che nessuno può controllare) che ha votato sì al processo, in nome della «coerenza» con il giustizialismo fondativo, ora minaccia di organizzarsi come una vera corrente interna, depositaria del «credo» originario. «C'è qualcuno che dice che il 41% deve andarsene, qualcun altro lo vuole etichettare come dissidenza. Io so invece che il 41% e pronto a mobilitarsi e vuole chiedere conto della direzione di questo governo», declama via Facebook Luigi Gallo, presidente della Commissione Cultura e affiliato alla fronda che fa capo a Roberto Fico. Ieri c'erano parlamentari grillini che si passavano con le lacrime agli occhi il furioso editoriale del Fatto, da sempre considerato un vero e proprio organo di partito, se non un vangelo. «Ha ragione Travaglio - si sfoga con l'Adnkronos un deputato - è stato un suicidio politico. Un voto dirimente per il destino del Movimento. Abbiamo consentito a Salvini di essere il protagonista».
Luigi Di Maio, il «capo» che per non inguaiarsi ha delegato al sondaggione farlocco del blog una decisione parlamentare, affetta entusiasmo: «È stato un grande momento di democrazia, i nostri iscritti decidono e noi portiamo avanti quella linea. Ora il caso è chiuso». Ma su Facebook viene massacrato dagli attivisti che lo accusano di aver «distrutto» il M5s, di averlo «omologato» agli altri e trasformato in «una brutta copia della Lega».
Lo statista di Pomigliano ha portato a casa la blindatura del patto di governo e l'asse con un Salvini che, di qui alle Europee, sarà costretto a pagargli svariate cambiali di gratitudine sulle scelte dell'esecutivo e su nomine e posti. Ma la sua posizione rimane precaria: se i prossimi appuntamenti elettorali sanciranno il precipitoso declino del M5s nelle urne, il malcontento e le rivalità interne rischiano di esplodere e di delegittimarlo. Finora, per tenere buoni i parlamentari, bastava il timore di non essere ricandidati e di finire in mezzo alla strada. Ma se il partito precipita dal 30% al 20%, come dicono i sondaggi, il potere di deterrenza nelle mani del gruppo di comando si affievolisce assai. La dissociazione di Appendino e Nogarin (la Raggi è stata ripresa per le orecchie) dal salvataggio di Salvini è un segnale chiaro: i sindaci al primo mandato, che devono fare i conti con l'elezione diretta, temono che il «poltronismo» romano li penalizzi. E Di Maio ha reagito violentemente: «Si sono fatti strumentalizzare, mi sono cadute le braccia», ha inveito nell'assemblea dei gruppi l'altra notte.
I «governisti» sono in difficoltà, il ministro Bonafede si arrampica sugli specchi: «Sono stato combattuto anche io, ma si trattava di difendere una legge costituzionale», spiega confusamente. Ma sembra l'Apprendista stregone Topolino alle prese col sabba delle scope.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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